La maratona della polvere

E’ strabiliante la voglia di viaggiare, sembra insita nel genoma umano quasi ne cementasse insieme i tasselli. Già, perché spesso, soprattutto nelle narrazioni un po’ campaniliste, si sente anche parlare di un sentimento opposto, contrario e comunque connaturato a queste graziose macchine di carne e pensiero quali siamo. La diversità non ci dovrebbe piacere in quanto lontana dalla norma, che si sa è sempre più consolatoria.

“Mai cambiare la vecchia strada per la nuova” nonostante ci si stia barcamenando con fatica in una maratona nella quale abbiamo un bastone da passeggio e una gamba offesa contro atleti slanciati e affusolati come space shuttle.
Sulla linea di partenza ci sono alcuni volti noti, fanno il tifo, quel tifo timido e reticente di chi in cuor proprio si sente fuori posto. Inizia il conto alla rovescia, il piede buono davanti, le spalle curve, la schiena in tensione pronta per scattare come una molla. Che poi che senso ha quella partenza così calma e frenetica d’un tempo? Non sono i cento metri, bisognerebbe custodire il fiato con dedizione, far finta di avere qualche bombola d’ossigeno nascosta nella tasca dei pantaloncini acetati con il logo svolazzante.
Si sente il rumore dello sparo, fumata bianca-grigiastra.
E’ un segno.
Quasi tutti partono, tutti tranne te, o perlomeno così ti pare all’inizio. Quando la nuvola di polvere sollevata dai solerti corridori si dirada scopri di non essere solo. Voi rimasugli, voi attendisti, vi scambiate uno sguardo che vale più di un milione di sgambettate nel centro città. Più di una tappa obbligata dentro al Central Park, più di una ricognizione con occhi bramosi verso la caffetteria verde-bianca, verso quella statua alta e dal portamento visto e rivisto all’inizio di film e pellicole.
Ve ne tornate a casa, cosa pensavate di fare?
Ad un tratto la vostra presenza lì, esattamente in quel posto, vi sembra alienante, priva di senso. Il terreno non si fa glassa, le gambe non diventano pesanti, prendete il taxi, la prima metro, e ve ne tornate a casa. C’è già l’acqua nel bollitore, la tazza è sulla solita credenza.
E’ strabiliante la voglia di tornare, sembra la vera linfa di un movimento che alla fine non vuole altro che trovare una forma e riposare attorniato da immagini familiari e rassicuranti.

C’è nell’anticamera un odore stantio, ma non lo senti, ci sei abituato. I propri odori si sentono in maniera distorta, ci si fa il callo, si nascondono in una zona specifica del cervello. Il salotto è vagamente illuminato da una luce che non chiameresti smorta ma nemmeno vitale, che non è apollinea ma non si avvicina al dionisiaco, che illumina quanto basta per permettere agli angoli di creare ampie zone di penombra. La polvere, ospite indesiderata ma anche fonte di attività ginnica inter domus, brilla se colpita da un raggio, da un fotone smarrito, mentre si deposita non vista se il mostro sotto al divano la conquista con il suo savoir-faire da gran conte delle fiabe. Il televisore ronza nonostante sia spento, ci sarà una presa che fa corto. La grande libreria dalle ante di vetro mostra ninnoli e relitti, uscite dell’edicola e graffi. Di un orologio a pendolo rimane la sagoma sul muro, non ne resta che un chiodo piccolo che sembra un neo sulla faccia bianca di un bambino. Il bollitore fa il suo lavoro, è un alacre produttore. Come ieri e il giorno prima ancora. Quanta affidabilità pensi, quanto sono degne di fiducia le cose. L’umor grigio non ha bussato alla porta, non hai sentito né nocche battenti né strascichi sinistri. E’ la polvere che ti fa starnutire e poi lacrimare. No, uno sbadiglio. La tisana pronta che è un tè. Acqua sporca. Zuccherata e buona. C’è un vago retrogusto di calcare. Bip-bip, ricorda la sveglia sul comodino della stanza da letto. Bip-bip, quella della cucina. Bip-bip, è la radio che si accende quando il tuo dito si poggia sul tasto play.
Le notizie del giorno. Che sono identiche a quelle di ieri.
Fatti e persone. Che sono riformulazioni di caratteri già sentiti.
Da quando non senti qualcosa di nuovo?
Nella tazza sguazza un minuscolo frammento bianco. Pensi al calcare, forse all’intonaco del soffitto da ritinteggiare. Come per magia ti vince la sonnolenza, ma sono le dieci e trentaquattro del mattino, e perché resistervi? Tanto hai l’impressione che il soffitto stia cadendo.
C’è nel venticello che proviene da fuori un odore di fiori misto a parole umane, una lingua straniera, non la comprendi, non la comprendi e ne sei rallegrato.

Fuori, desideravi tornare.
Dentro, desideravi viaggiare.
Il tuo posto nel mondo è l’opposto –
che ti hanno inculcato ad amare.

Photo by Fitsum Admasu

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