Paganini eccome se ripete

Se le sfaccettature di una persona fossero delle carte da gioco io adesso starei per mostrarvene un paio. Non mi interessa della partita in corso, solitamente non gareggio per vincere. Anzi, mi reputo una persona poco propensa alla competizione. Se dovessi scegliere tra l’essere il peggiore dei vincenti o il migliore dei perdenti, sceglierei quasi sicuramente la prima opzione. E non per la vittoria in sé, ma per la felicità della squadra tutta. L’orgoglio di essere considerato bravo mi interessa quanto la bellezza estetica di una portata al ristorante, finché è buona, passi l’estetica.

Torniamo alle carte. Mi riferisco in particolare alla mia totale incapacità di apprezzare qualcosa che già conosco. O meglio, così è sempre stato fino a prima della pandemia. Non c’è un vero legame tra le due cose, ma penso faccia effetto citarla ogni tanto visto che di solito non la nomino nemmeno di sfuggita. Non rileggevo mai i libri, non riguardavo film e serie tv, non mi piaceva il concetto stesso del bis. Ci deve sempre essere qualcosa di sorprendente e inaspettato nelle attività che svolgo per farmele ricordare e apprezzare davvero. Inoltre, per uno sciocco pregiudizio adolescenziale, ero convinto del fatto che una singola fruizione bastasse. Come se il testo perdesse linfa vitale e la scoperta delle sue parti le deformasse al punto da renderle sterili. Conoscevo le parole, le scene, le inquadrature, le varie espressioni. Quanto avrebbe potuto colpirmi qualcosa di già visto, di già consumato?
Ci sono così tante fallacie logiche in questa posizione che non saprei da dove partire per sconfessarle tutte. Dirò le cose più banali: un’esperienza cambia al variare del momento in cui la si vive, della persona che si è, del proprio ambiente, dei propri gusti, dalla compagnia, dalle motivazioni e addirittura dalle stesse potenzialità intrinseche all’esperienza stessa. E’, di fatto, una presa di posizione aprioristica quella di non riaffacciarsi mai sulla copertina di un libro amato, sul cofanetto di un film lasciato in bella vista accanto al registratore.
E’ un atteggiamento sbagliato? Certo che no. Se non c’è una precisa volontà dietro questa azione risulta comunque vuota e, sotto sotto, anche noiosa. Non sto parlando di un raduno di alcolisti anonimi che si aiutano ad affrontare i propri demoni.
Vuole essere solo la testimonianza di una persona che è passata dall’aborrire completamente le riletture all’apprezzarne il sapore profondo e complesso. Badate bene, non è diventata comunque un’abitudine, ma perlomeno è caduto quel veto antico che le avevo imposto dal basso dei miei preconcetti.

Mi è venuto in mente questo spunto per un motivo particolare e contingente: sto riscrivendo un romanzo che avevo già concluso ben due anni fa. Io nella mia stoica rassegnazione da sempiterno ignorato pensavo che fosse buono, ero sicuro che avesse un qualche valore che non veniva riconosciuto per … non saprei, pigrizia, mancanza di buon gusto, scarsa lungimiranza editoriale? E invece no. Riprendendolo in mano ho scoperto che non soddisfaceva nemmeno le aspettative della mano che l’aveva creato. Tra l’altro era una terza stesura, non il risultato di una trance agonistica compiuta di getto. Per ben due volte ero tornato sul testo per rileggerlo, correggerlo, migliorarlo. Già, perché io faccio decantare i miei lavori e non vi nascono quanto mi piaccia questa espressione. Li immagino, li compongo e poi li lascio da parte, in un angolo, aspettando il momento buono per bollarli come conclusi del tutto. Il problema è che più passa il tempo e più cambiano i miei gusti e più esperienze faccio più, spero, di migliorare. Quindi in sostanza mi ritrovo continuamente nella scomoda posizione di dover rivedere da capo il lavoro già fatto, sconfessandomi da solo di continuo e lambiccandomi sui miei limiti precedenti.
Ho approcciato questa quarta stesura con il sorriso tronfio del colonizzatore, non lo negherò. Mi aspettavo un’opera da limare, non un cantiere da riaprire. Desideravo, perché no, anche lasciarmi presto alle spalle questa incombenza per dedicarmi ad altro, del resto sono una persona leggermente compulsiva quando si parla di impegni creativi. Come risultato ho invece ottenuto una situazione del tutto inaspettata. Sto dedicando una quantità di ore smodata a rifinire ogni singolo carattere precedentemente impresso a tal punto che quando smetto il senso delle frasi appena incise mi scorre via dalle mani. Quello è il momento in cui capisco di dovermi fermare, di dover rifiatare e prendermi una pausa. Eppure nella mia mente rimane vivida l’impronta generatrice così come resistono ferocemente i personaggi, gli eventi, i luoghi che pur di non tornare nel manoscritto si appollaiano in un angolo della mia coscienza vigile. Due anni fa ho orchestrato gli elementi per farli convivere, gli ho dato un nome proprio e li ho inseriti all’interno di un disegno. Sono tornato negli anni a giocare con loro, sebbene per poco. Mentre adesso, alla quarta occasione, hanno deciso di prendere il controllo della situazione. Li ho ritrovati insoddisfatti, felici a metà della loro condizione.
“Dacci tregua, poni fine alle nostre sofferenze” dicono con sguardo ipocrita mentre lavorano dentro di me ribaltando le gerarchie.
E quindi è finita così. Mi sto piegando alla loro volontà.
Ogni frase mi sembra maledettamente nuova, ogni incontro una sorpresa.
E sono tutte situazioni uscite fuori dalla mia fantasia, nemmeno da quella di un altro!
Detto ciò devo scappare, ché i personaggi hanno fame e devo dar loro da mangiare.

Photo by Nadin Mario

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