Questo che sto per narrarvi è un episodio realmente accaduto. Il protagonista è una persona che conosco e questo evento risale a molti anni fa, parliamo di un periodo a cavallo tra la fine dell’infanzia e l’inizio della preadolescenza. Diamo un nome fittizio a questo nostro sfortunato personaggio. Per rimanere in linea con i miei gusti direi che “Meo” possa andar bene.
Meo era tornato a casa, nella sua accogliente dimora a misura famigliare, pronto a scartare tutti i regali ricevuti al compleanno. Si trattava non di strappare la carta regalo, non di arrovellarsi attorno a tutti i nastri, fiocchi, composizioni eleganti preparate con cura e saldezza di nervi dalle madri dei compagnetti di scuola, bensì di aprire le scatole dei giocattoli che di fronte a tutti gli altri aveva già mostrato come trofei di caccia. Doveva godersi il frutto della sua scorribanda anagrafica, in poche parole. Era contento, come lo sono solitamente i bambini nel giorno del loro compleanno. Aveva giocato con gli amici. Si era sentito al centro dell’attenzione per un intero pomeriggio. La madre aveva chiuso un occhio quando l’aveva beccato ad ingurgitare una quantità smodata di qualsivoglia tipo di bibite gassate. Era, a conti fatti, una giornata memorabile. Certo che tutti la aspettavano! Cosa si poteva desiderare di più?
La famiglia riunita, i volti un po’ curiosi e un po’ invidiosi dei presenti e la torta, questa costruzione di zucchero, panna, sfoglia leggerissima e fiorellini colorati.
Un adulto era stato pagato, questo lo capiva benissimo, per compiacerlo in tutto e per tutto. I suoi servigi erano stati comprati con sonante moneta d’oro solo per gratificarlo e per privilegiarlo in ogni modo possibile. Aveva goduto quindi della luce di tanti riflettori color pastello e dei trucchi da giocoliere dell’animatore. Aveva avuto l’onore di tagliare la prima fetta di torta e di comportarsi come un gentil sovrano di fronte alle udienze dei suoi sudditi-postulanti. Questo e tante altre cose erano successe. Tutte in un fazzoletto di appena tre, massimo quattro, ore! Perché la vita non poteva essere sempre così?
Perché ognuno aveva bisogno della sua quota di celebrità, sebbene il piccolo Meo ancora non potesse elaborare pensieri simili.
Era a casa, finalmente nella sua cameretta.
Era stato aiutato dal padre a portare i regali sopra il suo letto. Li avevano adagiati con attenzione sopra una coperta morbida e variopinta sulla quale erano disegnati il logo di una squadra di calcio e il volto dei suoi giocatori più celebri.
Una volta solo rimase a contemplare quello spettacolo per qualche secondo.
Erano tutti per lui, era il padrone di quei divertimenti che avrebbero popolato tanti dei suoi pomeriggi invernali. Soddisfatto di quella soddisfazione piena e senza sfumature dei bambini, fece per aprire il primo imballaggio.
“Fermi tutti”, disse a gran voce un losco figuro nella stanza. Eppure, Meo lo vedeva bene, era da solo. Sotto al letto erano accampati i mostri, ma non avevano quel tono imperioso. Dentro all’armadio c’erano solo sciarpe e cappelli che detestava. Il piccolo schermo del televisore era muto e il baule dei giocattoli era sigillato come i barattoli di marmellata che non riusciva mai a sgraffignare dalla credenza della cucina.
“Fermi tutti”, ripeté quella voce antipatica.
E Meo, da bravo bambino, obbedì.
“Sei molto felice”, continuò la voce con tono tra il melenso e l’indagatore, “sei molto felice”.
Meo serrò le dita e corrugò la fronte troppo innocente per quel genere di contrazione.
“Non mi piace la tua faccia. Sembra una patata. Ha una forma strana, la tua faccia. Cosa sorridi con un volto così.”
Inutile dirlo, ma Meo, punto sul vivo da un vago sentimento che aveva già iniziato a sperimentare, si ritrovò le guance zuppe e grandi lacrimoni sulle nocche.
Uscì dalla sua stanza, dal suo rifugio-fortino, per cercare i genitori. Piangeva a mezza bocca, senza fare molto rumore. Giunto nella grande camera da letto, grande per i suoi standard da bambino, cercò di esser consolato dalla madre. Lei era tutta presa dal far vedere alle pieghe del letto chi comandava in casa mentre il marito stava metodicamente ordinando la cravatta tra le sue sorelle.
– Perché piangi? Sei contento, vero? Sono lacrime di gioia queste. –
– No. – Rispose Meo singhiozzando e sentendosi un po’ sciocco. Doveva essere felice, era il suo compleanno. Fino a qualche momento prima si trovava in procinto di immergersi nei suoi balocchi ed ora eccolo lì, nella stanza dei grandi occupati, mentre frignava per un motivo che né lui, né loro, sembravano comprendere.
– Perché piangi allora? –
– Perché non mi piace la mia faccia. –
– E questo che significa? Chi te l’ha detto. –
– Nessuno. Lo penso io. –
Al tempo Meo era un bambino davvero educato, non avrebbe mai fatto la spia. Soprattutto non avrebbe mai incolpato quello spiritello antipatico che gli aveva insinuato il dubbio.
– Questa cosa è stupida. Se sono lacrime di gioia vanno bene, sennò sono sciocche. –
Meo non capì, i grandi dovevano essere più intelligenti di lui, non era così che andavano le cose? Li si ascoltava perché avevano tanto da raccontare e insegnare. Eppure, trovò quella risposta tremendamente insoddisfacente. Inutile, fuori contesto, superficiale.
– Ma è così. –
– La tua faccia non ha niente che non va. – La madre addolcì lo sguardo. – Ti sei divertito oggi, non è vero? Hai tanti regali da scoprire ancora. Perché non vai da loro? Appena abbiamo finito ti raggiungeremo anche noi. –
Meo tornò nella sua stanza. Non era pienamente convinto, ma rimuginarci sopra non gli sembrava altrettanto saggio. Quel vago malessere che gli aveva annebbiato il giudizio era diminuito, andandosi ad annidare in un cantuccio della sua mente. Eppure, fatto sta che non capiva.
Scartando i suoi giocattoli continuava a non capire.
Aspettando i genitori invano, che erano andati a preparare la cena e a preparare la tavola, continuava a non capire.
Si addormentò senza capire.
L’indomani si divertì con i suoi fiammanti pupazzetti.
Lui, ancora oggi, non capisce.
Ha una morale, non ha una morale?
Non mi interessa. Questo è un piccolo fatto vero tratto dalla storia di “Meo”.
Prendetene ciò che più vi garba.
Photo by Barrett Ward