Infrazioni, errori e funambolismi

Saper essere ripetitivi è frutto di un allenamento costante. È un’arte sottile, da affinare attraverso ore e ore di indagine e scartabellamenti vari. Non parlo della ripetitività tipica delle persone che hanno poco da raccontare, bensì di tutta una serie di procedimenti che di solito chiamiamo figure retoriche. Senza entrare troppo nei tecnicismi di una materia ardua come la metrica, ci basterà fare qualche considerazione striminzita.

L’italiano è una lingua fenomenale per la sua ricchezza lessicale, per i suoi registri abbondanti e sfumati, espressivi e caratteristici. E se c’è una cosa che il parlante o il lettore italiano nota con la repentinità di un falco a caccia, bene, questa è la grossolanità di un termine che si ripete a poche emissioni di voce o a poche righe di distanza. Fin dal tempo delle scuole elementari, quel mondo fantasmatico in cui le cartine appese alle pareti non rappresentavano ancora la Nazione o il Continente bensì la mitica e inimitabile Regione di appartenenza, ci è stato insegnato che bisogna sfruttare le peculiarità della lingua nostrana. E, in pratica, cosa dovrebbe mai significare?
Ad esempio, l’uso sapiente dei sinonimi. La padronanza di un periodare ampio e disteso, dal punto lontano come la riva per una barca in alto mare, che sentiamo definire ciceroniano. La capacità di essere invece brevi ed incisivi, concisi ed essenziali, e di usare i lemmi come spade, aghi e pungiglioni in quello che viene chiamato uno stile più ellittico, a volte nominale, per alcuni senechiano. L’insegnamento scolastico presenta una casistica tanto rigogliosa che sarebbe quasi impossibile passarla in rassegna per intero. Ciononostante, prescrive fortemente un atteggiamento in particolare: aborre, schifa, disprezza le ripetizioni. Per il semplice motivo che sembrano troppo facili, quasi scanzonate, alle orecchie degli italofoni. Ci lasciano un saporaccio in bocca dopo averle proferite e un ronzio sinistro nelle orecchie dopo averle ascoltate. Sono ostacoli, intemperie lungo il percorso, il chiaro segno che qualcosa non sta procedendo come dovrebbe. Siamo per questo portati a scusarci per eventuali bisticci, per giochi di parole che non troviamo poi tanto ludici, semmai vergognosi. Rappresentano una pecca, una macchiolina in quel concetto così alto che abbiamo del bel favellare, della proprietà di linguaggio che ricerchiamo, scandagliamo, aneliamo.
È giusto che si ponga tutta questa attenzione su un fenomeno simile?
Certo che sì, perlomeno è ciò che penso nella mia modestissima testolina.

In verità, la faccenda è più complicata di così. Come sempre, del resto.
Reputo confortevole l’attenzione dedicata alla questione linguistica nelle scuole e sono un accanito sostenitore dell’eloquenza intesa come arte del bel discorso e manipolazione della materia abbecedaria. Tuttavia, l’accademismo, la retorica considerata nei suoi abiti più austeri e la pignoleria, sono atteggiamenti che mal si sposano con la mia idea della competenza e della passione per la lingua. In altre parole, credo nelle licenze poetiche e le stimo a tal punto da estenderle al di fuori del campo arcadico della poesia.
La licenza poetica è un’infrazione nei confronti della norma, non un errore grammaticale. Diventa un errore nel momento in cui non si è coscienti del fatto che si sta operando un’infrazione. L’intenzionalità è il criterio che ci permette di distinguere l’uno dall’altra. Ovviamente, il suo esito può non essere felice, non basta aver progettato una deviazione dalla norma per renderla efficace e gradevole (o esteticamente valida): è come per le battute, si può scherzare su qualsiasi cosa, ma ciò non implica che siano sempre buone.
Ad alcuni queste licenze potranno sembrare dei colpi di spugna da letterati chiusi nel loro castello di vetro e avorio oppure delle mosse piuttosto truffaldine per giustificare delle mancanze basilari. Non posso dire che nella storia non siano mai state usate per nascondere qualche difetto, ma ciò non significa che siano marce per loro natura. Il loro scopo è quello di rendere più espressivo, situato e connotato il discorso. Sono arricchimenti significativi, non orpelli da finti aristocratici.
Giungiamo quindi alle ripetizioni.
Per loro valgono le stesse regole. Presupponendo una conoscenza adeguata della lingua e un suo sfruttamento di pari livello, le ripetizioni possono essere considerate dei tabù da sfatare. Sono opportunità, possibilità da cogliere. Come tutte le figure retoriche, donano alla proposizione una forza che in loro assenza non avrebbe avuto. Imprimono un ritmo, danno il tempo, incidono nel tessuto stesso della costruzione frasale. Non bisogna abusarne, questo è ovvio, ma saperle inanellare con grazia. Bisogna sperimentare tenendo bene a mente un po’ la tradizione, un po’ l’innovazione e un po’ il gusto personale. Siate funamboli della parola!

… e lasciateci divertire!
P.S.
Repetita iuvant!

Ma solo dopo aver imparato adeguatamente la variante standard (qualsiasi cosa significhi), mi raccomando!

Photo by Brett Jordan

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un’icona per effettuare l’accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s…

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: