Esiste un tipo di narrativa che mi affascina enormemente. Di solito, capisco di trovarmi di fronte ad una storia simile quando volto le pagine alla velocità della luce e non mi chiedo nemmeno una volta “cosa sto leggendo, cosa sta succedendo?”
Questi libri, che generalmente vengono etichettati come “narrativa contemporanea”, hanno degli aspetti in comune che pian piano ho cominciato a riscontrare. Innanzitutto, hanno tutti per protagonista un uomo o una donna alle prese con la vita quotidiana. Non ci sono grandi strappi all’orizzonte, né incipit folgoranti che preannunciano cannonate e abbordaggi. “Stavo preparando un piatto di spaghetti al sugo”, “Ho appena posato il rasoio sul lavandino” o “Passeggiando per la via dei negozi ho visto il profilo riflesso di un barboncino”, questo è il tono della prime righe. Diciamocelo, non sembrano i preludi di un intreccio avvincente e coinvolgente. Eppure, costituiscono il primo gradino di una lunghissima scala armonica di eventi in minuscolo, di stranezze piccine inanellate come tanti aneddoti di poco conto, superflui, in sostanza inutili, in grado di dare forma ad un’atmosfera ben precisa, ad una galassia di implicazioni significative e dense. Di piatto di pasta in piatto di pasta, di barboncino in barboncino, ci si ritrova catapultati in un posto dai contorni definiti, in una nebulosa di eventi a metà tra il familiare e il nostalgico.
Quando un qualsiasi autore riesce a vendermi l’aria fritta, sembra una definizione antipatica o delegittimante ma non lo è affatto, io applaudo la sua immensa bravura. Sono tutti bravi a tenerci incollati con una trama ricca di colpi di scena, di cliffhanger e di situazioni studiate per lasciarci con il fiato sospeso, per emozionarci e scuoterci. Ci sono degli striminziti principi narratologici che si possono seguire per ottenere un risultato abbastanza compiuto da raggiungere un’ampia massa di persone, pizzicare le giuste corde è un’arte sottile che però affiniamo da una quantità smisurata di tempo, abbiamo dei ricettari indicativi che in questo possono aiutare. Quindi, quando il filo del discorso viene srotolato con semplicità e accortezza da mani comuni, guizzando da un punto all’altro con la placidità di un pesce in uno stagno, la trama perde quasi di consistenza e diventa solo un altro tassello di tutta l’esperienza. La trama, in questi casi, più che diventare il centro dell’attenzione, risulta uno sfondo, un pittoresco fondale sul quale proiettare una serie di accadimenti minuti, di pensieri sintetici e icastici proprio per il loro essere così essenziali, in fondo taglienti.
Una teiera che bolle non è solo uno strumento di coccio per riscaldare l’acqua, l’esclamazione di turno del protagonista, qualcosa sulla linea di un “l’acqua sta bollendo” oppure “hai visto, l’acqua bolle”, non è banale nonostante suoni tautologica. E questo perché tutto attorno gli è stato costruito un determinato clima che risignifica ogni scena. Ogni scoppiettio, ogni sbuffo di vapore, ci dice qualcosa in più sull’esistenza del protagonista, sul suo percorso. E, in questo, sono fondamentali gli altri personaggi che gli orbitano attorno. Anche se, per personaggi, intendo anche gli oggetti ricorrenti della narrazione.
Se questo nostro amico senza nome dicesse “l’acqua bolle” di fronte ad una persona sconosciuta, noi, da pubblico senziente, ci costruiremmo tutta una serie di ipotesi ed inferenze. Se, invece, davanti a lui ci fosse una persona molto vicina, diciamo pure un’amica intima, le cose non cambierebbero totalmente? Eccolo, con un sorriso mesto sulle labbra, la luce grigiognola che viene dall’esterno, forse è una giornata autunnale, mentre prepara un tè per sé e per la sua amica. Nel silenzio di questa scena domestica, tra i due ci sono dei trascorsi che al lettore non sono ancora molto chiari, si svolge un intensissimo scambio di emozioni. Eppure, sulla carta non c’è scritto niente, verba volant, ma anche scripta non scherza. I nostri occhi scorrono solo su questa stringata linea di dialogo.
“L’acqua bolle”.
O “l’acqua sta bollendo”.
Non servono risposte, non serve nulla, il momento è perfetto così e l’aggiunta di anche solo una farfalla turberebbe l’intero ecosistema della storia.
Ammiro i libri costruiti così, quelli che, attraverso l’inessenziale, riescono a dire tutto. Le pagine sfrecciano con la fluidità di un corso montano, tra le nostre mani eventi giornalieri si susseguono, non ci si chiede mai “ma dove andrà a parare questa storia?”
Io amo svincolarmi dai finali, non so cosa dica questo di me. A volte, quando vengo sconfitto dall’ultimo punto, da quel punto che non è riuscito a concludere niente, da quel punto che non ha avuto la forza di darmi un indizio su uno scenario conclusivo, mi sento grato per ciò che è appena avvenuto. Ho assistito alla parte di un percorso e non c’è un vero epilogo, penso. Questi personaggi non li incontrerò mai più. Questa atmosfera vive esattamente in queste, facciamo, centocinquanta pagine. Non la troverò altrove. Non verrà ritoccata, riesumata, disseppellita nuovamente. È tutto qui, in queste centocinquanta pagine di incontri bizzarri e al contempo ordinari, di queste frasi che fanno pensare “non lo direbbe mai nessuno” subito prima di un “anche se …”, di questi personaggi che appaiono e poi scompaiono, probabilmente per sempre. È al fondo di storie simili che mi ritrovo a pensare, soddisfatto e immalinconito, sembra proprio reale, eppure è fantasia.
Perché alla fine siamo sempre in viaggio e la prossima pagina potrebbe avere tutt’altre fattezze rispetto a quella precedente.
Photo by Road trip with Raj