Facciamo insieme un esperimento mentale.
Chiudete gli occhi, copriteli con le mani, con le dita, con i polpastrelli, con uno scopettone, con quello che preferite. Basta che siano chiusi. Non dovete vedere niente.
La vostra risposta sensoriale visiva deve coincidere con l’illusione che chiamiamo buio. Per soddisfare pienamente tutti i requisiti dell’esperimento bisognerebbe anche mettersi i tappi nelle orecchie, trovare un metodo indolore per perdere la sensibilità tattile e via discorrendo. Ma non siamo qui per ficcarci dentro una bolla di deprivazione sensoriale, tranquilli. Avete raggiunto questo stato di sospensione? Ecco, adesso, ragionate attentamente su un singolo quesito.
Il mondo esiste ancora?
L’universo esiste ancora?
Io esisto ancora?
La risposta è meno sciocca di quanto possiate immaginare. Questa presa di coscienza vi farà anche spaziare su una linea immaginaria calcata tra il soggettivismo più solipsistico e l’oggettivismo più materialista.
E, badate bene, nonostante siano estremi, trovo entrambe le posizioni piuttosto plausibili. Io, per molti anni della mia vita, sono stato parte del primo schieramento, credevo che chiudere gli occhi comportasse la sparizione totale dell’esistenza. Del resto, cos’era la vita se non un insieme di percezioni veicolate da questo cervello che mi ritrovo incastonato nella scatola cranica? Se fossi scomparso nel nulla, per uno schiocco di dita magari, sarebbe finito tutto, non è vero? Certo, il mondo avrebbe in qualche modo continuato la sua lunga maratona, ma nulla mi avrebbe più toccato, nulla sarebbe più esistito. Checché ne dicessero i medium e gli umili.
Negli anni ho spostato gradualmente l’ago della bilancia verso una posizione più moderata, non sono più un irriducibile propugnatore di questa strana forma di egocentrismo esistenziale. Ciononostante, lo sottolineo di nuovo, non trovo sia una scelta così fuori di testa. Del resto, l’ho condivisa a lungo e non ho voglia di darmi dell’idiota da solo.
Prendiamo invece il caso di un altro individuo che per comodità chiameremo A.T., sì, per i più attenti di voi, è sempre lui, e consideriamolo un fervente accolito della fazione opposta. A.T., questo simpatico tycoon dei nostri tempi, considera la realtà un monolite inscalfibile, una gigantesca tartaruga sguazzante nel cosmo. Per lui le domande che hanno dato vita a questo esperimento sono quasi superflue, superficiali, a dir poco inconcludenti. Se lui morisse tutto continuerebbe ad esistere, punto. Non ci sono alternative, nessuno schema binario, nessun testa-o-croce, nessun gioco della bottiglia. La realtà esiste in quanto tale, si, come dire, auto-sostanzia.
(So che prima o poi qualcuno mi dichiarerà nemico pubblico per tutte le mie pretestuose licenze poetiche)
Per lui un sasso è un sasso e la sua forma è quella che vede impressa nelle retine. Non ha dubbi sull’esistenza di un criterio oggettivo universale. Il passato è il passato, in quanto già successo non è modificabile, il presente è il presente, quindi non inafferrabile, bensì la somma algebrica di momenti in successione, e il futuro, beh, è il futuro, un insieme si-spera-non-troppo deterministico di variabili che si mischiano tra loro. Non c’è spazio per una decostruzione capillare e cavillosa, il verbo essere è così inattaccabile da apparire sinceramente antipatico. Tu sei. Io sono. Quello era. Questo sarà.
Sono profezie in un certo senso già avveratesi. Questo schema mentale getta alle ortiche la bellezza dei vaticini oscuri, dà il benservito alla sibilla cumana con la leggerezza di un graffito impresso di notte.
Ma, in tutto questo, non voglio giudicare lo stimatissimo A.T., si è solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il suo punto di vista è, come quello di cui ho parlato precedentemente, piuttosto comprensibile. Più pragmatico, direte voi, funzionale, quasi positivistico. Eppure, in fondo, è più plausibile della sua controparte. Se chiudendo gli occhi mi immaginassi la trasformazione di un sasso in un mango bello maturo alla loro riapertura verrei deluso dall’ineluttabilità delle leggi fisiche. Così va il mondo.
Circa.
Trovo la fiducia nella stabilità degli oggetti sia stupida che commovente, sia speranzosa che vagamente illusoria.
Gli oggetti deperiscono, gli oggetti rimangono.
Gli oggetti sono solidi, tangibili, ancore.
Gli oggetti sono simboli, stanno-per, sono formule magiche alle quali aggrapparsi nei momenti di intenso saliscendi.
Gli oggetti sono utili, forse hanno addirittura un’anima, sono compagni di viaggio, sono il segno del nostro passaggio sul globo terraqueo.
Gli oggetti sono simulacri, sono vuoti contenitori che usiamo per sostituire i sogni con le carte di credito, sono il consumare per il gusto, no, la necessità di consumare.
Il passato è concluso, lontano, non dovrebbe più avere potere su di noi.
Eppure, leggere un libro a dieci anni è una cosa e rileggerlo a venti, a trenta, a quaranta, un’altra.
Il presente è qui ed ora, va afferrato, colto, valorizzato.
Eppure, come si coglie e s’arresta l’impeto di un fiume? È come voler bere una particella d’aria.
Il futuro è di là da venire, arriverà, arriverà, arriverà.
Eppure, nelle rughe di questo vecchio cane, nei baffi bianchi e bassi di questo gatto, si vedono indizi di quello che saremo.
Tutto può essere il contrario di tutto.
Ma tutto non è il contrario di tutto.
È una questione di orientamento.
Il vostro pensiero è la bussola, il tempo la corrente oceanica.
E la realtà? La realtà è dappertutto, sia quella vera che quella falsa, direbbe qualcuno.
Photo by Marc-Olivier Jodoin