È la parte schizofrenica a parlare. Moshi moshi, dice. Come se avesse uno straccio di senso. L’ha sentito da qualche parte, è folle, folle, folle. Si inventa cose, le riscrive a suo piacimento.
Per strada ha chiesto se il barbone avesse il pos, perché non aveva spiccioli da dargli. L’ha guardato come si guarda una macchia incrostata sul fornello. “Allora” ha detto, “allora non meriti nemmeno l’unghia della mia carità”. Parla come se sputasse, la parte schizofrenica. Come se ogni parola fosse un rigurgito, un conato di là da venire. Eppure, a volte e solo a volte, si riscopre malinconica, nostalgica, incredibilmente aperta al dialogo.
“Questa è spazzatura che profuma” risponde ad un come stai.
“Ho visto che avete lanciato un altro animale in orbita” fa, noncurante.
Si scorda che è parte di un essere umano anche lui, lei, qualunque cosa sia.
“Ho visto che un re ha meno soldi di un suddito qualsiasi, e voi lo chiamate un mondo sviluppato” ha idee strane, c’è poco da aggiungere, ma lo dice con uno sguardo, che occhi.
Prende i nomi delle persone che conosco, che conosce, e li stravolge a piacimento. Non conosce il politicamente corretto, è senza cuore e senza scrupoli. Quella è un’astronave con i bigodini, quell’altro è un palloncino smilzo che non è nemmeno riuscito a diventare un cane per un bambino. Cose così. I nostri amici sono per lui-lei una strana forma di batteri. Se potesse, li spaventerebbe a morte, così da non farli mai più tornare. Tutto questo nonostante la sua propensione al riso collettivo, alla risata in grado di scardinare le fondamenta più solide.
“Il cemento è uno stato mentale”, dice.
“Le gru sono basse, per questo le vedo”, dice.
“Non sei tu a rompere la materia, è la materia a rompere te”, dice.
Forse il cuore di tutto sta nel ricordare dov’è nata, dov’è che si è generata questa ombra sardonica. Ricordo che la prima volta in cui la sentii ero …
Vide passare qualcosa dietro la tenda. Un’ombra, nulla di più.
Sistemò la coperta sulle gambe e prese in mano il telecomando. In televisione stavano mandando in onda la replica di un film thriller uscito nelle sale ormai da più di dieci anni. Lo guardava senza soffermarsi troppo sui dettagli, lasciandosi trascinare dalla storia.
“Quelli che vogliono fare gli investigatori e risolvere il caso insieme al protagonista non li capisco, tanto valeva farlo di mestiere!” Pensava aprendo meticolosamente delle arachidi.
Durante una pausa pubblicitaria diresse lo sguardo verso la grande vetrata del salotto.
Dietro la tenda vide un movimento, nel verso opposto rispetto a quello che aveva pensato di scorgere precedentemente.
“Sono stanca, meglio smetterla di passere le ore piccole davanti a questo affare”.
Eppure, rimase al suo posto, con la calda coperta che le copriva il bacino e le gambe e una scodellina piena di bucce d’arachidi. Sgranocchiava, cambiava posizione alle gambe indolenzite, faceva zapping nei momenti vuoti della trama, quelli in cui la sciocca vittima di turno si attardava in una situazione di chiaro pericolo.
“Idiota, è normale che sta per succedere qualcosa. Guarda quel taglio di luce che proviene da un lampione scassato, il vicolo è nella penombra, sei da sola ed è notte fonda. Non fermarti, idiota.”
Puntualmente la comparsa si fermò e l’assassino, invisibile allo spettatore per una sapiente scelta registica, gli balzò alle spalle afferrandola.
Una punta di disagio si impadronì di lei, non era mai a suo agio nel vedere scene simili. Stava succedendo altrove, in un mondo di fantasia, e nemmeno erano persone vere quelle, bensì attori. Ciononostante, sotto sotto, nel profondo, veniva colta in fallo da una sottile inquietudine. Non era mai piacevole passare una notte così, da sola, sul divano a mangiare snack, facendo le ore piccole.
Sì, si sarebbe dovuta alzare. Doveva andare in camera da letto, spogliarsi e infilarsi sotto le coperte.
Cacciò via dal divano alcune briciole superstiti quando il campanello suonò.
Trillò nel silenzio facendole aumentare il numero dei battiti.
“Me lo sarò immaginato, maledetta suscettibilità. Sono stanca, domani ho mille impegni, devo andare …”
Il suono limpido del citofono si propagò nuovamente nella quiete notturna.
Uno scoppiettio di qualche secondo, massimo tre.
Rimase così, sospeso, a metà strada.
Lei guardò istintivamente la tenda.
Dietro, una sagoma indistinta sembrava fare avanti e indietro, avanti e indietro.
“Questo deve essere un incubo, mi devo svegliare”.
Per dimostrare a sé stessa di non essere più una bambina indifesa, si diresse con decisione, ma le mani le tremavano, verso la vetrata. Fece un respiro profondo, drizzò le spalle e scostò la tenda color mostarda.
Le scappò un grido, là dietro c’era …
– Che ne dici di andare a prendere qualcosa dopo scuola? –
– Qualcosa tipo? Non abbiamo tutto questo tempo. –
– Qualcosa come qualsiasi cosa! Ai compiti ci penseremo più tardi. –
– Questo lo dici tu, ma lo sai che io non ho tutta questa libertà. E poi, di sicuro, vuoi andare a gironzolare in quel negozio di bigiotteria solo perché ti piace la commessa. Avrà quattro anni più di noi! –
– Quattro anni cosa vuoi che siano? –
Disse senza nemmeno provare a sviare l’attenzione.
– Quattro anni sono tutto. Quelli che hanno quattro anni in meno di noi li chiamiamo bambini! Secondo te come ti vede lei? Dimmi, secondo te, come ti vede? –
– Ehi, ehi, calmo. Perché te la prendi tanto? –
Si fermò. Guardò le sue mani sudate, incollate alle bretelle dello zaino. I suoi piedi, calzati in scarpe anonime che non gli interessavano. Il ciuffo costantemente in rivolta, che gli copriva un occhio. L’orologio al polso, che ticchettava e ticchettava. Il profilo leggermente bombato della sua pancia.
Toccandosi con la punta dell’indice il dorso del naso disse:
– Già, perché me la prendo tanto? –
La pallottola passò da parte a parte.
Il suo corpo cadde pesantemente al suolo. Quello era il suo corpo, il suo stramaledetto corpo. Lui non poteva cadere a quel modo. Lui era più forte. Sei più forte di così! Gli gridò silenziosamente, con le lacrime che già montavano dietro le palpebre. Tu non fai questa fine, tu non dovevi fare questa fine. Me lo avevi promesso!
Eppure, la pallottola era passata da parte a parte e lui era caduto.
Brillava una singola luce artificiale sul soffitto del magazzino. L’anulare del corpo ormai steso rifletteva pochi tenui bagliori. Lì rimase il cerchio d’oro, solo, inerte, adesso macchiato di rosso.
In lontananza, il rumore delle sirene e i passi concitati di un uomo in fuga.