La storia è fatta di lunghi silenzi inframmezzati da brevi scampoli di informazione. Questo pensava Stufomarcio, ragazzo problematico alle prese con le contraddizioni del presente. Semplice, come poteva essere semplice un ragazzo cis, etero, bianco, e privilegiato quindi tanto intimamente da non rendersene nemmeno conto.
C’era chi vociferava fosse addirittura ricco, ma sarebbe strano accettare una simile ipotesi, visto come si è svolta la sua vicenda. I più lo vogliono sospeso a metà tra il dire e il fare, tra il ben pensare e il ben agire. Come un pendolo, ormai da considerarsi un paragone superato e ben poco creativo. Stufomarcio aveva una passione spropositata per le storture, per tutte quelle costruzioni architettoniche sul punto di crollare. Benintesi, strutture che poi non venivano affatto demolite, bensì capaci di diventare il simbolo di fiorenti città toscane. Se c’era qualcosa che poteva pendere, oscillare, puntare in una direzione diversa da quella attesa, lui ci si fiondava con la rapacità di un predatore. Si innamorò quindi della società e delle sue adorabili spirali d’ombra, si infervorò della città moderna, della metropoli, del quartiere a mo’ di comunità nella comunità nella comunità. I rigagnoli dovuti agli acquazzoni erano poca cosa rispetto alle torme di abiti stesi ad asciugare, pericolanti sopra le teste dei turisti e dei netturbini. Nelle ricorrenze prendeva partito contro tutto quanto gli ricordasse l’obbligatorietà delle consuetudini. Un pranzo in famiglia diventava un campo per dimostrare la sua posizione contraria, ovviamente con le fauci gonfie di cibi lungamente preparati, mentre le deliziose catene della cortesia e dell’educazione si stemperavano affogando nei gelati i più variopinti. Spendeva da spilorcio il suo pane per gli altri, rinverdiva di fronte alla gioia spensierata degli stolti, che a ben vedere quindi stolti non erano, e titillava le ghiandole della malinconia affinché sprigionassero il dolce veleno di una nostalgia pre-sentita, pre-confezionata.
Come ribellarsi al ghigno stroboscopico del miliardario fagocitatore di sogni e imprese? Come affrontare il dislivello economico aperto tra il tuttofare lavavetri specializzato presemaforista e l’abbiente aristocratico non più aristocratico benché borghese ma che vuol dire ormai borghese? Testimoniando la presenza mortifera ed ellerica (l’edera ottocentesca scapigliata, romantica quanto scrostare le grondaie in una calda mattina di Luglio), di un asse da troppo tempo partito per la tangente. A battagliare contro l’ipocrisia si perdono facile i denti, non era facile per Stufomarcio campar con un piede in due stivali a tal punto diversi. Sebbene criticasse le guerre lontane, ma in quanto guerre umane non sono sempre vicine?, sebbene gozzovigliasse tra i dettami degli alti prelati intonagati di tutto punto solo per profferir qualche “la pace è una bella cosa, smettete di fare la guerra” e sebbene immaginasse la risposta cruda di una sua maestra delle elementari nel caso in cui lui avesse argomentato tanto pessimamente la sua tesi … niente, non vale, si perdeva nei sebbene, per l’appunto, nelle congiunzioni avviluppanti di un mondo globalizzato, interconnesso, online.
Sapeva però d’esser incazzato, nero di bile, tumefatto dall’ira sorda non tanto del ribelle, quanto del bambino inappagato. Perché la rabbia, con tanti cari encomi e saluti alla giusta collera di freiriana memoria, se lo mangiava dall’interno a tal fatta da mutarne i connotati. Furioso contro le parole stolide di un gruppo dirigente apparentemente miope, furente nei confronti di un consorzio civile retto dal domani pressappochista del qualunquista populista, funesto, che non è sinonimo di arrabbiato, nei riguardi del suo stesso modo di dire e fare. Dov’erano le parolacce che quotidianamente utilizzava? Dove le sgrammaticature sintattiche dell’eloquio quotidiano? Sticazzi dell’urbanitas e del sermo cotidianus, della logica d’alto professore e del guazzabuglio-armadio davvero stantio già individuato da quel Pirandello nella retorica.
Stufomarcio, capirete, era ben confuso. O, per meglio dire, nun parlava come magnava. Il che era un bel controsenso, visto il suo progetto di arrivare al maggior pubblico! Chissà perché sentiva che le sue idee andassero nobilitate da una forma impeccabile, rispettosa in tutti i crismi della folta e capelluta tradizione. Chissà perché, a pelle, rabbrividiva nel constatare l’efficacia di certe canzoni dal testo diretto e d’impatto. Ma come, e tutte le armi della divina dialettica? L’arsenale comprato a caro prezzo dalle prezzolate università … della strada?
E giù di lamentele sul degrado dei costumi, sulla lentezza dei processi e sulle posizioni politiche testate sulla pelle di gente se non innocente di sicuro non al corrente.
Provava e riprovava a far valere il suo privilegio, a metterlo in gioco per il bene collettivo. Perché allora sentiva il magone quando a cena fuori pasteggiava disquisendo di sociologia? Quale l’arcano inghippo che fuori lo tagliava dal gruppo dei giusti e volenterosi e attivisti?
Mordere la mano del padrone, ecco tutto. Ma quale padrone, ma quale mano?
Finì che Stufomarcio si spense nel buio come la candela irradiata da una bomba nucleare.
Della sua rabbia, quindi del suo testamento spirituale tout court, rimane però qualcosa.
Qualcosa che, no, al momento non ce l’ho sotto gli occhi, ripassate domani.
Foto di Hasan Almasi