Wabi-sabi, fantasmi e demolizioni

Soffia il vento. Una ciocca di capelli vola sulla visiera del cappello di paglia. I tuoi occhi azzurri come il cielo osservano una squadra di demolitori all’opera. Là dove hai fumato la prima sigaretta, dove nel bagno hai inciso il nome di una persona cara, stanno misurando a grandi passi il cemento che verrà inghiottito dalla gru. Sei stesa sopra una tovaglia a scacchi rossi e bianchi. Indossi un vestito leggero, bianco a tal punto da illuminarsi di luce propria. Accanto al tuo ginocchio piegato un ragazzo fa finta di dormire e un’amica ti mostra il naso puntato verso le nuvole. Dice di fare silenzio, ma ride della finzione dell’altro. Dice di guardare quell’edificio che prima c’era e adesso non c’è più […]

La cultura wabi-sabi fa parte della filosofia buddista. Consiste nell’accettazione e nella valorizzazione di ciò che è imperfetto e, perché no, incompleto. Si potrebbero usare migliaia di parole per descrivere questa sensazione al confine tra la serenità e la nostalgia, la calma e la malinconia. Un oggetto wabi-sabi non ha nessuna pretesa, non spinge ad andare oltre o a rincorrere un obiettivo posto chissà dove, semplicemente esiste e te lo mostra senza filtri, genuinamente e sinceramente. La vecchia scopa utilizzata dalla nonna prima dei pranzi domenicali, il vaso ormai vuoto dove negli anni sono cresciuti più sogni che piante e magari anche la posata scheggiata o graffiata, quella senza la quale nessuno avrebbe iniziato a mangiare. Questi sono gli esempi più banali che mi possono venire in mente parlando di oggetti che corrispondono a questa vaga e suggestiva sensazione.
Cosa c’è di profondo in questo sentimento diretto alle piccole cose, ai dettagli fuori posto e alle minuzie? Un semplice e crudo realismo. Del resto, tutto scorre e nulla può evadere il cambiamento all’infinito. Il tempo in questo è infantilmente punitivo, manca di umiltà come di empatia, non aspetta nessuno, né i suoi favoriti, né coloro ai quali dà schiaffi dall’alba dei tempi. La perfezione è, volendo illuderci che esista, un istante fortunato, figlio e frutto di tanti fattori da far girare la testa. È il picco, l’apice di un’intera esistenza, oppure dell’Esistenza con la e maiuscola, quella che di noi esseri umani se ne infischia ed ha così ragione a farlo. E se la perfezione è tutto sommato un punto d’arrivo, perché abbiamo il desiderio di farla nostra? Perché sottomettere questo bellissimo e caduco fiore quando coglierlo significa ucciderlo? Non si può vivere saltando dalla vetta di una montagna all’altra, è quanto di più folle possa venirci in mente. Ecco quindi che, dalla porta sul retro, entrano le cose che ci circondano, gli oggetti e le relazioni della quotidianità. Sono lì a consigliare amorevolmente di stare attenti ai grandi trucchi dei prestigiatori, mettono in guardia di fronte alle malie di chi tutto promette senza poter garantire alcunché. Non è necessario sacrificare la gioia di un momento per continuare questa maratona disperata che ci vede intenti ad evitare un futuro incerto e problematico. Le tappe della vita sono delle immani semplificazioni, tuttalpiù dei modelli, delle sagome di cartone da cui prendere spunto, ma nulla di più. La piena realizzazione dell’ego, in sostanza essere a proprio agio con sé stessi, non ha una data di scadenza. Sarò anzi più drastico: è un bene non poterla raggiungere che dopo una serie decisiva di tentativi, errori e successi. Cosa succede al bambino che viene messo nelle condizioni di esaudire i propri desideri con un cenno della mano o una parolina dolce? Diventa assuefatto e precocemente disilluso.

Se nulla dura davvero, se l’eternità non esiste e non c’è niente di scolpito nella roccia, perché agire? Nel nome del presente e di ciò che i sensi ci rimandano indietro. La pressione esercitata sui pulsanti della tastiera mi fa sentire vivo quanto il suono ticchettante che producono. La canzone che ho nelle cuffie irradia nel mio corpo ondate di benessere, di aggressività, di voglia di fare, di tranquillità. La posizione sulla sedia è poco ergonomica, so che dovrò alzarmi a breve, sgranchirmi le gambe, bere un sorso d’acqua e tornare alla mia postazione. I movimenti della pancia richiamano la mia attenzione sul fatto che in quanto essere umano ogni tanto dovrei mettere qualcosa sotto i denti. Gli occhi seguono la linea del dettato fin quando un colpo di luce, un raggio ramingo, non colpisce una finestra distraendomi. Quella distrazione non è tempo perso, ma vita che scorre.
Se queste motivazioni non bastassero se ne potrebbero elencare anche altre. Si può agire per il semplice desiderio di inseguire un ideale. Per scoprire cosa si cela dietro la linea dell’orizzonte. Per godere di un caffè preso sempre alla stessa ora con le stesse persone. Non esistendo un Senso universale è semplice trovarne altri più discreti ma efficaci. L’importante è non deformare le aspettative e non proiettare nel futuro tutto quello che ci pesa sul groppone. Del resto, tradire sé stessi è facile: basta preoccuparsi di ciò che non è ignorando la concreta e imperfetta bellezza di ciò che è adesso.
Wabi-sabi non significa accontentarsi. E nemmeno lasciar correre senza criterio. Significa guardare il presente con gli occhi di una persona serena e lucida. Acchiappare i fantasmi può essere divertente quando si è bambini e ancora in grado di vederli, ma i fantasmi degli adulti sono diversi, hanno il sapore amaro dei rimpianti e il brutto volto di un’illusione stracciata e calpestata con violenza.

[…] Squilla il telefono. Una voce ti dice che ha bisogno di questo, subito. Che non può accettare un ritardo. Che non sei insostituibile, là fuori c’è la fila per prendere il tuo posto. Che ti può rovinare con una parola, qualche giro di mani e un invito a cena. Che se non sei il massimo, di te non sa che farsene. Che hai bisogno di un nome e un cognome scritti a grandi lettere su tanti documenti quanti sono i respiri che prendi ogni giorno. Che il tuo tenore di vita è legato con un filo rosso all’efficienza, nonostante tu non sia una macchina. Che nella competizione, nell’arena, devi avere quel di-più per emergere, per affermarti. Che ti dice, tronfio come un pallone aerostatico, che il suo è un favore, perché crede in te, nei tuoi risultati e del resto, con tutti gli strumenti che ti ritrovi, sarebbe strano non raggiungerli.
Soffia il vento e nella bocca ti ritrovi la polvere.
Non riesci a trovarle tanto belle le macerie dell’edificio.

Foto di Kelia Hotzel

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