Il pudore è quella virtù che distingue una persona disinibita da un’altra in pieno controllo delle proprie brache. Determina, al contempo, quell’atteggiamento tipico di chi prova una vergogna eccessiva per qualcosa che è, in realtà, del tutto plausibile e coerente con il contesto. Finché agisce come linea guida etico-morale si può parlare di un suo fruttuoso impatto sulla società e sulla vita dei singoli individui mentre considerarlo un mezzo per strumentalizzare e controllare gli usi e i costumi di una popolazione non fa che renderlo un balocco da signori con il vizietto della poltrona calda.
Erigere una barriera impenetrabile tra sé e le aspettative della società è sicuramente deleterio, provoca alienazione e straniamento, ma farsi influenzare da ogni singolo segno culturale è sinonimo di debolezza, oppure di un’identità in formazione quantomeno insicura. La risposta, come spesso accade, sta nel mezzo. O meglio, nella nostra capacità di discernimento. Ebbene, la maggior parte degli atti non è giusta o sbagliata, bensì adatta o meno all’hic et nunc di cui si sta avendo esperienza. Ciò non significa che sia tutto accettabile a priori, sia mai, ma solo che la teoria deve passare necessariamente al vaglio della pratica. A cosa serve questo cappello introduttivo? Chissà.
Torniamo al discernimento e al suo valore contestuale.
Per un pescivendolo del mercato rionale è naturale prendere uno splendido esemplare di orata per la pinna e tenerlo alto per mostrarlo ai clienti? Tutto ci porta a pensare che sì, lo è.
Per un parlamentare, insignito del grave e fondamentale compito di rappresentare il popolo nei suoi bisogni e istanze, di tutelarlo, di fare i suoi interessi anche posponendo la propria diretta ambizione, è naturale prendere un pesce e sventolarlo in faccia ai colleghi durante un incontro ufficiale? Una vocina noiosa mi porterebbe a dire che no, non è affatto come dovrebbe svolgersi una seduta parlamentare. Che poi l’evento faccia ridere e rappresenti un ottimo aneddoto da sgranocchiare tra un lupino e un sorso di birra, è tutta un’altra questione.
Procediamo con un altro esempio.
È ragionevole per un prete innalzare il rosario mentre predica e conduce la messa ai suoi fedeli? Immagino di sì, se lo svestiamo anche delle sue icone e del suo armamentario retorico di lui cosa resterebbe se non la mentalità da affabile medioevale? So che le battute anticlericali non vanno di moda, ma qualcuno bisognerà pur farlo incazzare per istigare una reazione.
È invece anche solo lontanamente accettabile che un politico impugni il sopracitato rosario come una mitragliatrice di fronte a schiere di accoliti adoranti e festanti in una repubblica laica come la nostra? E l’ostruzionismo continuo operato a sfavore di persone sofferenti, che rischiano la vita per completare una traversata mortale intrapresa superando chissà quali orrori, è qualcosa che si può concepire? E il trasformismo populista che rende una fazione ex-indipendentista e arrogante un partito di respiro “nazionale”? Per fortuna l’elenco è talmente nutrito che non c’è bisogno di andare a trovare quarantuno milioni di ragioni per affossare una nave dal blasone a metà coperto dal livello del mare.
Oggi sono in vena di esempi, passiamo al prossimo.
Se all’interno di una classe liceale un ragazzo, mettiamo un sedicenne, rispondesse malamente ad un professore, cosa vorremmo accadesse? E se, invece, durante un’interrogazione, lo stesso ragazzo rispondesse ad una domanda girando attorno al fatto di non essere minimamente preparato? È un brutto voto quello che lo attende alla fine del colloquio. Ci aspettiamo che gli studenti siano relativamente curiosi, competenti, rispettosi, educati. Ammiriamo in loro la correttezza e la gioventù. Sappiamo che l’errore è sempre dietro l’angolo, ma non è da demonizzare, bensì da indicare, sviscerare, portare su un piano comprensibile che non ne permetta la ripetizione. In sostanza, cerchiamo in tutti i modi di allenare il loro spirito critico mantenendo al contempo un forte legame con il rispetto delle regole condivise.
Se all’interno di una trasmissione televisiva, mettiamo un bel salotto in prima serata con uno share del 15%, un giornalista aggredisse verbalmente un filosofo, un politico millantasse formule economiche impraticabili al cospetto di un professore di economia e un conduttore portasse avanti un’intervista lasciando sempre carta bianca all’intervistato, cosa vorremmo accadesse? Anzi, cosa dovrebbe accadere?
È molto rassicurante notare quanto della qualità del dibattito pubblico non ce ne importi un’acca. Ed è addirittura sorprendente il grado di libertà che può mostrare un qualsiasi personaggio mediatico per il puro fatto di essere un personaggio mediatico.
Ricordo un tempo non molto lontano, per essere ridicoli al massimo, nel quale compiere anche una sola di queste azioni avrebbe pregiudicato la credibilità di chiunque.
Non rispettare il turno di parola dell’altro era inaccettabile e sovrapporglisi una mancanza di educazione alquanto barbarica.
Con chi urlava e sbraitava impugnando argomentazioni antiscientifiche facilmente affossabili ci si comportava come con chi ha subito un brutto incidente, la compassione era piuttosto marcata.
L’evadere continuo alle domande, la mancanza di un punto fermo da sostenere con decisione e il programmatico atto di far da scaricabarili non erano medaglie da appuntarsi al petto e nemmeno i fregi per documentare la propria innegabile abilità oratoria.
Professare di conoscere un argomento come le proprie tasche era un compito arduo da dimostrare e passava sotto le forche caudine della curiosità popolare. E, nel malaugurato caso in cui si veniva colti in fallo, non era possibile scagionarsi con un chiavistellico “non so se capite”, “però la vostra è propaganda” oppure un sempreverde “ma chi è lei per dirmi questo”.
Queste erano le regole di base nella scuola dove ho fatto le elementari. Le elementari, signore e signori.
Qualcosa deve essere andato storto, si direbbe.
Photo by Brian Wertheim