Sulla meditazione si potrebbero dire così tante cose da riempire la superficie della terra di pile e pile di libri. Non ho alcuna intenzione di giudicare coloro che la praticano, né tantomeno il partito opposto che non sa vederci altro che una serie di incomprensibili compiti fuori di testa.
La meditazione, un po’ come la psicoterapia, è una di quelle attività impossibili da affrontare senza essere pronti a fronteggiarne le conseguenze, positive come negative. Non ci si sveglia una mattina pensando “oggi vorrei proprio meditare” anche perché si verrebbe immediatamente sommersi dal peso delle incombenze giornaliere. È divertente immaginare una persona che, partita con il proposito di dedicare del tempo alla contemplazione, finisce per correre da un punto all’altro della città solo per ricavare quei cinque minuti di piena libertà.
Ma in cosa consiste la pratica meditativa? Troppe sono le opinioni in merito ed è un bene che sia così. Non esiste un’unica via di fare le cose e, se è vero per il modo in cui si tagliano le verdure o spazza il pavimento, deve esserlo anche per una cosa tanto più profonda. Alcuni pensano che consista nell’indirizzare il proprio pensiero in una determinata direzione, quindi attraverso l’allenamento, perché ovvio, pure per meditare è necessario impegnarsi, si è in grado di astrarsi a tal punto da dedicare tutte le proprie energie a quel singolo quesito. Immaginate un arciere novizio che passa dal non saper tenere in mano un arco al buon Legolas che scaglia frecce contro la gravità esattamente in mezzo alla fronte del suo bersaglio. Nel caso dell’apprendista, del discepolo alla ricerca dell’illuminazione, c’è sicuramente meno spargimento di sangue, ma va più a fondo una lama che taglia la carne oppure un dubbio assillante che rode l’anima?
Per altri invece la meditazione consentirebbe di raggiungere dei livelli dell’esistenza diversi da quello in cui sguazziamo abitualmente. Niente più autobus e utilitarie in mezzo al traffico, eccoci nel magico mondo delle proiezioni astrali e delle Cose Importanti sempre identificate dalle lettere maiuscole.
O ancora, è la via d’accesso al nostro Io più recondito, alle pieghe nascoste dell’anima, addirittura alle radici dell’inconscio collettivo. In sostanza, a seconda del proprio intento, è possibile intraprendere numerose strade. Parliamo di uno di questi viottoli in particolare.
Il koan è un racconto molto particolare. È una storia, o per meglio dire un’affermazione, contraddittoria. In poche parole: un paradosso. Siamo d’accordo che ciò che è bizzarro attira la nostra attenzione, ma perché meditare su un’evidente stortura? Possiamo iniziare col dire che il punto è proprio questo, trovare un senso alla pratica meditativa è la prima casella da spuntare e quale migliore tecnica esiste per affinare il proprio ragionamento se non quella di metterlo a confronto con un enigma che, apparentemente, è insolubile? Spesso un koan è molto breve, il suo obiettivo è quello di dare un assaggio dell’essenza, è un tramite, un messaggero, un viatico, un ambasciatore, insomma, quello che desiderate, e come tale non porta pena. Se vi colpisce per l’assenza di una risposta immediata non fatevi aggredire dalla frustrazione e considerate la ricerca come un gioco intellettuale, un modo per mettere alla prova la vostra mente come il vostro corpo. Quante risposte diverse possono sorgere da un esercizio simile? La meta del tentativo non è quella di raggiungere la perfezione, piuttosto è quella di perfezionarsi durante il tragitto. Sembra un paradosso? Significa che siamo sulla buona strada.
Ma come si articola un koan? Solitamente appare un maestro zen che, sicurissimo del fatto proprio, dona una risposta sibillina al suo discepolo. L’oggetto della contesa può essere uno strumento, una relazione, una situazione oppure un semplice evento. Nulla sfugge all’acume sardonico del sensei. Questo oggetto di meditazione si chiama wato, ed è il nodo che l’allievo dovrà sciogliere attraverso il ragionamento. Trovare un giovane immerso nei suoi pensieri nonostante tutt’intorno si faccia festa, ci si rimpinzi di cibo e si balli al lume della luna, non è per niente strano; infatti, per alcune scuole buddiste lo studio di un koan dovrebbe durare addirittura una vita intera. Ogni giorno l’allievo ha a disposizione un colloquio con il maestro per testare i progressi fatti. Un po’ come in un gioco a premi, ogni giorno si ha un aiuto dall’esperto che consiste nella maggior parte dei casi in uno sguardo di disapprovazione oppure in un sospiro scoraggiato. Questo scambio si chiama dokusan ed è un po’ come la maieutica socratica, ma senza Socrate e senza adolescenti promiscui in ogni angolo della stanza.
E cosa ottiene colui che esce vittorioso da questa battaglia cerebrale? Il kensho, ovviamente, ossia una maggiore comprensione della realtà. Risolvere un paradosso, in questo esercizio meditativo, garantisce il fatto che la mente si è sviluppata a tal punto da vedere in una linea mezza nascosta dalla nebbia una retta impettita diretta verso l’infinito e oltre.
Prendetevi un momento per immaginare quanta importanza si debba dare al linguaggio e al ragionamento per dedicare il proprio tempo ad un simile sforzo. Pensate inoltre a quanto il discernimento sia fondamentale per la specie umana. Senza di esso, probabilmente, saremmo solo degli animali più deboli degli altri, senza particolari attrattive, anzi, abbastanza bruttini ad essere sinceri. Ecco perché, nel rispetto di qualsiasi posizione, trovo intrigante esplorare ad oltranza questa capacità che tanto ci rende unici. Siamo dotati di organi sensoriali in grado di riprodurre la realtà circostante e siamo così assuefatti, abituati a ciò, che dimentichiamo quanto sia formidabile. Formidabile e … impreciso. I nostri sensi non ci rimandano la realtà in un rapporto uno a uno, bensì ce ne forniscono un’interpretazione, un’idea, insomma, un abbozzo. Ed ecco che entra in gioco il discernimento. Prende un mattoncino e lo mette da una parte, ne prende un altro e lo lancia via, un altro se lo infila in bocca perché ha un bell’aspetto e un odore gradevole. E questo succede in ogni singolo essere umano. Risolvere uno, dieci, cento koan può rendere questa visione ancora più mozzafiato? Verrebbe voglia di tentare.
Un contadino, vedendo camminare il famigerato … maestro Oreriano Temu-Pera, si mise a fissarlo assorto. Sorprendentemente, parlava all’aria come ci fosse qualcuno dicendo:
– Ti ho incontrato ma tu non c’eri. –
Foto di 愚木混株 cdd20