L’arte. Questo pallido sogno da inseguire, la tela da imbrattare, il cesello da scagliare contro il marmo, il progetto da realizzare, l’armonia da accordare, le giuste parole da deporre gentilmente nel giusto sentimento, nel giusto spazio, nella giusta, e giustificata, forma. È una creatura, un vero e proprio animale seppur metafisico, degna di un bestiario medievale. E cacciarla, braccarla e sottometterla è impossibile, almeno quanto essere sicuri di averla colpita anche solo una volta. È sfuggente, agile e sempre un passo al di là della linea dell’orizzonte. Per ogni strada battuta al fine di divorare il distacco non esiste che la burla finale di vedere le orme, senza la presenza. A tutti i contrabbandieri di pellicce, ossa e status symbol vorrei dire qualcosa dal profondo dei miei polpastrelli: non ne vale la pena.
Impiegare le proprie forze e il proprio impegno per rendere questa aspirazione all’assoluto, questa vocazione, una realtà, o più materialmente, un lavoro, è quanto di più infruttuoso si possa fare. L’arte non va cacciata perché raggiungerla è un atto ossimorico più che blasfemo. Va invece seguita con gli occhi sempre infantili di chi è pronto ad essere stupito. Va vagheggiata come fosse una nube di profumi e colori non di questo mondo, sebbene appartenga a questa terra tanto quanto noi esseri umani, e va colta nelle sue manifestazioni dirette, nei suoi sforzi di palesarsi alle noci ammaccate che chiamiamo tanto pomposamente “cervelli”. Non che l’arte abbia davvero fattezze e volontà proprie, non ci tengo a dare un’anima ad un concetto, ma, volendo travisare in maniera ignorante le parole del buon Giordano Bruno, l’arte è immanente, dappertutto, e il suo respiro non può che essere colto dagli spiriti più sensibili. Ancora, vorrei evitare di impiegare termini tanto mistici per quella che non è una religione, anche se i caratteri di un culto laico li ha tutti. Diciamo solamente che è meglio non infarcire e infagottare un concetto tanto leggero e aereo come quello dell’arte con tutti i pesantissimi vestiti della retorica. Questa fiera indomabile che pare catturare gli sguardi come una calamita, che attira gli uomini al suo cospetto grazie ad un magnetismo non direttamente osservabile, che ci irretisce, ci illude, ci fa penzolare come calzini sugli attaccapanni, esercita la sua influenza proprio per il fatto di essere irraggiungibile. Considerarsi i portavoce, o i sacerdoti per continuare l’antitesi religiosa, della sua casa, del suo focolare inestinguibile come quello delle Vestali romane, è una violenza nei confronti della dama che si pensa di aver conquistato. Se presa, non può che scorrere come sabbia tra le dita, se circuita, avrà per noi la consistenza del vapore e il gusto dell’aria. Metterla in una teca, istituzionalizzarla, non farà altro che allontanarla in una dimensione che noi stessi abbiamo costruito per lei. Ma com’è fatto questo luogo? È una stanza angusta, polverosa, progettualmente impeccabile e proprio per questo arida e sterile. Non parla una lingua storica perché cos’è se non il frutto di un’arroganza e di un egocentrismo spiccatissimi? Aver confezionato per la Musa delle muse questa adorabile prigione dorata è di certo segno di grande abnegazione, ma si sa, che da questa all’ossessione morbosa il passo è davvero corto. Sebbene non abbia una volontà, né un volto, delle preferenze sessuali, delle papille gustative e men che meno delle calze di flanella, soffrirebbe al solo pensiero di essere diventata un uccellino incapace di volare.
Lei, sicura di sé, imperturbabile, ridotta al gioco intellettuale di un gruppo sparuto di saccenti accademici o virtuosi, al giogo di talentuosi mercanti in grado di coglierne le sfumature più impensate quando si tratta di pesarle in oro, deperisce di una morte apparente ma non per questo meno tragica o triste.
Ai cacciatori d’oro del Klondike, ai pionieri spaziali dei minerali e non dell’esplorazione, agli abilissimi incantatori di serpenti rinnovo il mio appello: non ne vale la pena.
Se sia l’arte figlia solo dell’ars, dell’artificio e quindi della tecnica, io non lo so. Crederla opera d’artigianato non mi sorride, perché può essere tale, ma ciò non deve e non può esaurirla. Esiste di per sé, quasi come un idolo pagano a cui s’è dato un nome per comodità? Oppure è il riflesso, o per meglio dire lo specchio, della creatività umana, della sua sensibilità e del suo irriducibile desiderio di eternarsi, di carpire i segreti della vita e della stessa esistenza? È possibile in quanto siamo in grado di vederla, o siamo in grado di vederla perché è possibile? Ancora una volta, io non lo so. Ma sono al contrario convinto della grandezza di chi ha il proposito di cogliere la natura di questa bestia evasiva che chiamiamo arte. E vederla strumentalizzata, vituperata, colta in flagrante nei suoi momenti più bassi, mi sembra vigliacco oltre che scorretto. Non deve essere una professione, bensì uno stile di vita e di ricerca. Può avere delle scadenze ragionevoli, ma, diciamocelo sinceramente, noi così piccoli, così atomici, abbiamo sul serio la pretesa di stabilire cosa sia o non sia ragionevole per lei? Può avere dei confini, prevedere delle barriere. Può portare alla chiusura in sé stessi o all’apertura verso il mondo. Può diventare il pungolo per comunicare con gli altri ed esprimersi, oppure il cauto invito alla meditazione su una tradizione millenaria. Può indurre all’ascetismo come al diventare gli esseri più mondani sulla faccia del globo, può addirittura inghiottire in un sol boccone tutto, il cielo il mare l’inferno il paradiso. La strada alla ricerca dell’arte non è lunga, ma infinita. Non c’è valigia che tenga, né biglietto aereo abbastanza ambizioso, non sono stati inventati mezzi di trasporto in grado di condurci da lei. Fortunatamente. Ciò non significa che la tecnica non si possa affinare. Esistono vari artifici piuttosto riconosciuti per dotarsi di tutta una serie di sublimi strumenti. Ma l’arte, il cuore da cogliere per renderli più che semplici utensili, va trovato là fuori, alla rincorsa disinteressata della fiera sfuggente.
Dov’è questo “là fuori?”
Vi risponderei, ma sono tale e quale a voi, non lo so, e non ne vale la pena.
Photo by John Schaidler