Hai voglia di qualcosa di nuovo, di stimolante. Qualcosa che ti faccia alzare dal letto con la baldanza dei giorni migliori, quando al mattino venivano a caricarti ancora assonnato per gettarti in mare, nella neve oppure tra i rivoli rinfrescanti di un fiume che tagliava a metà il bosco. Fai per muovere la mano in direzione della sveglia e già questo atto meccanico ti preleva un quinto di tutta l’energia di cui disponi per affrontare l’intera giornata.
Clack, è il suono fin troppo metallico del pulsantone sulla testa della sveglia. Crick, è il rumore della stessa testa che torna in posizione. È una ritualità, non c’è niente di male nell’essere, come dire, leggermente abitudinari. La morning routine è ricca di potenziali scoperte. Il latte potrebbe essere finito, o scaduto, i biscotti sbriciolati, ma magari sopravvive una fetta di torta dal compleanno della sera precedente. Ed è quando affondi la forchetta grigia nella morbida consistenza dello zucchero sommato ad altro zucchero che il cervello avvia il browser e la connessione raggiunge livelli di ricezione quantomeno decenti. Qualcosa di stimolante ci dovrà pur essere. Hai la giornata libera, un dispositivo capace di raggiungere amici, conoscenti e prossimi all’abiura e alla scomunica, e tanta, tantissima, voglia di fare. A pranzo, bene, a pranzo potresti sbizzarrirti più del solito, anzi no, chiamare tua sorella, prenotare in un posticino carino e poi … sì, anche il marito, nonostante ti stia simpatico quanto interrompere la lettura di un buon romanzo ogni tre secondi. Ogni giorno in città nasce una nuova attività, un nuovo divertimento, una nuova prospettiva tutta da cogliere. Sotto casa hanno aggiunto al menù della pasticceria un succo di frutta ghiacciato dagli ingredienti esotici. Dietro l’angolo hanno aperto un negozio in cui si può trovare di tutto, dalle graffette alle mine delle matite che saltano come grilli dopo aver premuto l’estremità superiore del portamissili. Una follia, qui ci vuole una follia. Adesso vai in pescheria e compri un’aragosta, una cazzo di aragosta, enorme, prelibata, ricca, rossastra come quello che immagini sia il colore di Marte. Deve essere tua, sì, un’aragosta. Farai la foto, la manderai sul gruppo del lavoro, risate ed emoticons si alterneranno e qualcuno avrà il coraggio di chiedere: “fai la bella vita, quanto ti sarà costata?”.
Ed è lì che non ci vedi più. La tua mano è ancora penzoloni nell’intervallo creato tra il letto e il comodino. La sveglia si titilla le lancette finte e il lenzuolo è per metà a terra, coperto dai peli del gatto scomparso.
Hai voglia di qualcosa di nuovo, di stimolante. Due quinti dell’energia sono andati a farsi allegramente benedire. Il primo se l’è mangiato la sveglia, il secondo la fantasticheria.
Se il numero degli eventi stressanti supera una certa soglia, la diga si rompe, la pazienza esonda nei territori della frustrazione e la vista si fa sempre più sfocata, fino al punto in cui diventa l’obiettivo di un fucile di precisione, o meglio, il tunnel che la pallottola vede e attraversa prima di raggiungere la sua destinazione. Come nel montaggio che porta la copertina di un film di 007 a ruotare su sé stessa, ecco che il sistema di difesa del nostro amabile ammasso di nervi decide di darci un’idea della profondità della tana del Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie. Niente più idee sul modo migliore per pulire la tenda della doccia, nessun prodotto è più in grado di lavare via la muffa dietro il mobile antico di mammà. Il pasto non è più una necessità, quanto un vezzo aristocratico. Cucinare per sé stessi? Non siamo tanto egocentrici. Non meritiamo mica un simile trattamento. Gettiamo un po’ di pasta sul fuoco, lasciamola scuocere nel suo brodo e torniamo quando le sostanze nutritive si saranno agglomerate in un cubetto di colla e speranze infrante. Il suo gusto sarà sublime quanto la bibita gassata usata per mandar giù tutto in pochi bocconi. E, andando giù per il tubo, troverà la sua agognata fine in uno stomaco provato, in un intestino preso al banco dei pegni e in un fegato che, di grazia, lavora per entrambi ad un ritmo spaventoso. E passo dopo passo, incrinatura dopo incrinatura, la visuale continua a stringersi, il bullone a sferragliare. Erode i lati più esterni, poi ne consuma quelli moderati, infine si stabilizza su un centro che di centro ha solo la collocazione geografica. Vediamo un puntino, un puntino grassottello ma pur sempre un puntino, che assomiglia ad una serratura. Oltre, ci sono le nostre membra che agiscono, che, come attrezzature ben calibrate e caricate a molla, fanno il minimo indispensabile per continuare a macinare carbone. Fii, sbuffa la locomotiva in partenza. Fiii, sbuffa la teiera della colazione. Fiiii, sbuffa la bocca di cui siamo portatori sani, annichilita dall’aver perso tre quinti della sua potenza in meno di un’ora.
Gira che ti rigira, l’ingranaggio si è finalmente fermato. Il tunnel impercorribile è sempre di fronte a te, ma appare più mansueto. Sembra una bestia feroce addormentata. Rimandi a mente le passate ore. Non hai perso sangue, non hai bevuto, non hai fatto uso di sostanze stupefacenti. Non hai dormito le consuete otto ore e ventisette minuti, ma ci sei andato vicino. Dubiti qualcuno ti abbia avvelenato con il mercurio (anche se un’occhiata fulminea nei confronti del gatto la scocchi, così, giusto per assicurarti che sia tornato sano e salvo dalle scorribande notturne). È come se ti avessero messo le lenti di un cannocchiale al posto dei bulbi oculari, però al contrario. Distante, ti vedi distante, siderale, come una stella che lenta muore, o è già morta, chissà dove nel quadrante dell’universo. E sei un pendolo, che oscilla tra il qui e il non-qui. Sei una pignatta di etichette che odorano di offerta speciale due per uno come resilienza, serendipità, non-luogo e vai-in-analisi-perDio. Sei, sei, no, quattro. Quattro quinti se ne sono andati. Hai la gola secca, sei convinto che non parlerai mai più. Non resta che gettare nel cesso anche l’ultimo, così potrai tornare a letto e sognare di aver sognato di sognare.
Driin, è il campanello.
Rispondi e un uomo sale. Ti si presenta con un cappello calcato in testa, una giacca color cammello e una valigetta chiusa che promette fregature. Inizia a parlarti, ti profila prodotti, promette rese fantasmagoriche, ti fa l’occhiolino in maniera intima. Se ti consiglia certe manovre è perché ti ha capito al primo sguardo, sa di che pasta sei fatto. Lo dice per il tuo bene, è tutto pensato per te.
E in un raptus di totale e incontrollata furia, gli dai retta.
Lo ascolti fino in fondo. Annuisci. Annuisci di nuovo.
Poi sorridi.
E gli spieghi per filo e per segno quanto tutto quello che ti ha appena detto sia una cazzata che con te non attacca. Che fiume di parole, e pensare che eri convinto che non avresti mai più aperto bocca.
Lo cacci, cordialmente s’intende, e ti chiudi la porta alle spalle.
Un quinto ti rimane nelle retine e poi, come per magia, si allarga fino a occupare tutta la visuale.
Quell’uomo color cammello ti ha spennellato via dal tuo tunnel, ti ha dato l’appiglio per tornare con i piedi per terra.
In barba a tutte le statistiche, le etichette e le proporzioni decidi di comprare questa maledetta aragosta.
Hai voglia di aragosta.
Magari chiamerai anche tua sorella e gliela farai provare, senza quello stronzo del marito.
Photo by Toa Heftiba