Tabagismo tabucchiano

C’è un personaggio che ti scruta da una poltrona. Sembra vecchia, ma non è malandata. Su di essa, come tanti piccoli nei, ci sono delle macchie dalla dubbia provenienza. Lui, uomo corpulento e dagli occhi intelligenti, pare scrutare nel fondo della tua anima.

Non lo conosci, è la prima volta che lo vedi. Eppure, per qualche corrispondenza che non ti è chiara, lui sembra sapere chi sei. L’interno è illuminato da una luce fioca, ci sono di sicuro dei quadri appesi alle pareti, ma anche delle crepe nell’intonaco. Miseria e nobiltà si alternano sul volto del tuo interlocutore e, ti colpisce questo pensiero, sai già quale voce avrà. Il suo tono, la flemmatica determinazione con la quale scandirà le sillabe, sono informazioni che già possiedi. Ciò che non sai, e che non potresti sapere, è la frase, il suo contenuto, che sta per esprimere. Infine, come se fosse la cosa più banale del mondo, rompe il silenzio dicendo qualcosa di spiazzante ma semplice, profondo e al contempo superficiale.
Qualcosa come “Infine, sei arrivato” oppure “Ho messo su il tè”.
Non eri atteso, non sapevi che saresti arrivato al suo cospetto, invece eccolo là, sicuro del suo, apparentemente sicuro, mentre … mentre fa ciò che lo distingue, ciò che lo rende vero, non caricaturale. Si accende un sigaro, esatto, un sigaro, perché è difficile immaginare che Tabucchi non gli metta un sigaro tra le dita a questo signore anonimo mostrato di sguincio.

Antonio Tabucchi è un autore che ho imparato ad apprezzare con il tempo.
Immaginate di ritrovarvi in libreria. Avete una voglia tremenda di comprare qualcosa che vi stupisca, che vi sconvolga addirittura. Ciononostante, nulla vi salta all’occhio. Non c’è copertina artistica a balzarvi davanti, né un titolo o un nome accattivanti a tal punto da convincervi a scegliere proprio lui. La scelta è tanta e proprio per questo difficile, confusionaria. Il rischio è quello che si annulli e che il vostro bel proposito approdi ad un molo fantasma, o peggio, naufraghi chissà dove e chissà quando. Per quanto mi riguarda, Tabucchi è la scialuppa di salvataggio in questi momenti di indecisione. E’ un autore dalla penna così leggera e meditabonda, dal tratto tanto coinvolgente e scorrevole, da risultare un enigma incomprensibile la sua assenza nel dibattito letterario di un certo livello. Ciò che appare evidente fin da subito è il suo sconfinato amore per il Portogallo, terra che ha reso sua al pari, se non addirittura superiore, della sua terra d’origine, l’Italia. Ebbene sì, ci troviamo di fronte ad una personalità che ha viaggiato, conoscendo porzioni di mondo inaccessibili per coloro che rimangono tutto il tempo seduti sulla loro comoda sedia girevole. E questi viaggi, lungi dal costituire una materia fertile per una cronaca spicciola, nelle sue mani diventano la creta per modellare dei personaggi più veri del vero, più significativi di un mastodontico tomo della Treccani.
I personaggi tabucchiani sono colti nel pieno svolgimento di un tragitto. Sono viaggatori, al pari dell’autore, che scoprono, esplorano e, a volte, occultano parti di sé e del mondo che li circonda. In una narrazione che potrebbe scadere velocemente nella caccia ai fuochi fatui, ai fantasmi o alle streghe, la concreta materialità dell’opera tabucchiana sorprende e sbigottisce. Lungi dal sembrare figurine, sagome di cartone o stereotipi, gli individui che porta in scena sembrano usciti da un documentario, uno di quelli in bianco e nero, al limite color seppia, che trasudano autenticità da ogni poro. Nelle vie di un Portogallo sconosciuto ai più, fatto di viuzze pittoresche, guide turistiche bizzarre e pensioni, ostelli e locande d’altri tempi, troviamo giornalisti alle prese con un caso di cronaca nera, pescatori in procinto di prendere il largo per cacciare le balene e rivoluzionari con un piede nella lotta armata e un altro nella loro casa confortevole, circondati dai libri che li hanno resi quelli che sono. E ancora, nelle Isole Azzorre, o magari in India, perfino negli accenni di un’Italia osservata come il paesaggio naturale che si spalanca guardando fuori dal finestrino sul treno, maturano, si assaporano e incastrano incontri che hanno del fiabesco, del magico e anche del delittuosamente empirico. Perché la metafisica nelle opere di Tabucchi è un tema permanentemente trattato dai suoi personaggi, trattato sì, ma relegato altrove, in una dimensione, per l’appunto, teorica. La prassi, la vecchia cara realtà, entra sempre a gamba tesa per ristabilire l’ordine delle priorità, la sua incrollabile stabilità (che poi, detto tra noi, tanto stabile non è).
Esseri umani dalle grandi aspirazioni condividono la via con quelli che la spugna l’hanno gettata illo tempore. I più intraprendenti, che non sempre sono anche i più intelligenti, offrono il destro ai più miti, ancora una volta non sempre tra i più intelligenti, e ciò che si ottiene è un percorso illuminato dalle candele, costantemente in penombra, e mai certo di giungere a termine. Verrebbe da chiedersi chi sia il protagonista di Notturno indiano, ambiguo viaggiatore alla ricerca del fratello, anzi no, di sé stesso, anzi no ancora una volta, di ciò che vorrebbe essere dimenticando ciò che è stato. Verrebbe anche da domandarsi se la testa di Damasceno Monteiro sia per don Fernando solo un palliativo per assopire le sue angosce, il suo asma psicosomatico. E i balenieri, questi uomini salvati dall’oblio della storia con la S maiuscola, cos’hanno da insegnarci, a noi ultra rispettosi e beneducati homini sapiens del ventunesimo secolo? Che, alla fine della fiera, il tempo invecchia in fretta, eccome se invecchia, e che è sciocco pensarci due volte quando la vita irrompe e chiama e invoca all’azione. Ciononostante, è meglio non illudersi, una via giusta non esiste, così come non ne esiste una sbagliata. Piccoli, piccoli esseri al centro della ruota dell’esistenza (un saluto al caro Palazzeschi di Equilibrio), non facciamo altro che esplorarne i raggi. Ciò che appare indiscutibile oggi può divenir malleabile, friabile, nulla, domani. E l’integrità di cui ci facciamo vanto, a fronte degli eventi che tutto rimescolano (il gioco dei bussolotti!) può apparir poca cosa nel gioco del rovescio.

Ebbene, per me che nemmeno conosco la sensazione di tenere una sigaretta tra le dita, Tabucchi è come il sigaro che dà carattere ai suoi personaggi. E’ un dettaglio, sì, di cui non farei mai a meno.

Photo by Ander Burdain

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