Simili timidezze

In un libro si può cercare una sensazione, un’atmosfera, anche solo un accenno di qualcosa che ancora non si è manifestato compiutamente. Non sempre questo spunto corrisponde ad un modo per colmare una lacuna, così come non è vero che ci cibiamo di storie per il semplice motivo di non saper stare da soli con noi stessi.

È possibile che accada, indubbiamente, ma il legame non è bidirezionale, non è una condizione necessaria e sufficiente. Questa che definisco “sensazione” altro non è che un’impressione aleatoria, un alito fugace di qualcosa che bussa alle soglie della coscienza senza la certezza di essere ascoltata. Attribuirle un’identità, un confine e un nome proprio sarebbe come desiderare di vedere tutto il mare racchiuso nelle mani a coppa di un bambino. L’atmosfera che alcune opere riescono a popolare di figure emblematiche e scorci mozzafiato è tanto ineffabile quanto potente. Già, potente, come quando ci si trova di fronte ad un avvenimento storico che si ha la certezza stia per entrare negli annali. Un panorama è difficile da sintetizzare in poche righe, ma pur avendone centinaia a disposizione il risultato non muterebbe. Un personaggio singolare di un romanzo di Kazuo Ishiguro, il diligente e compromesso Mr. Stevens di Quel che resta del giorno, entrerebbe volentieri in questa discussione, lui, amante del panorama inglese, delle vaste pianure e delle lontane colline che accompagnano le strade dei viaggiatori. Il maggiordomo in questione apprezza queste curve dolci sopra ogni cosa, reputandole il fiore all’occhiello della sua nazione. Che faccia o meno bel tempo resistono imperturbabili, ora coperte dalla bruma, ora rischiarate da un sole mai troppo coraggioso. Sono lì, sul limitare del campo visivo, come il gesto d’intesa di un nonno pronto ad intervenire per il suo adorato nipote. Come trasmettere la grandiosità, la vera e propria grandeur, di una simile vista? Mr. Stevens, da fine osservatore e abile manipolatore del linguaggio, non può che operare l’unica scelta condivisibile. Descrive finché la sua lingua ha parole da spendere e finché la gola possiede fiato per esprimersi. Descrive, alla lettera, con le parole più adatte, la pendenza dei declivi, il colore delle zolle, dei mattoni dei casolari e dei fili di fumo che salgono al cielo proiettati dai comignoli. Senza frapporsi tra ciò che vede e ciò che vuole venga visto, tenta di rendersi una pellicola trasparente, annullandosi nel senso della vista, forse confondendosi e divenendo parte del tutto.
Questo è uno dei modi per porsi innanzi ad una frontiera, ma sono convinto che ne esista almeno uno ad essere umano, uno a testa.

L’atmosfera del Bosco Vecchio, del suo mistero che non ho il cuore di svelare, rientra in uno di quei casi dove la lingua può anche adattarsi al ritmo dettato dal realismo magico e dalla suspension of disbelief. Generata dalla penna meticolosa, e capace di guizzi di una fantasia cristallina, di Dino Buzzati, trascina con garbo all’interno di una storia senza la pretesa di essere un capolavoro sconvolgente. Discreta, ritrosa, forse eminentemente riservata, mette in scena una vicenda fiabesca capitanata da un ex soldato alle prese con il suo congedo dall’arma. Sebastiano Procolo, questo il nome del nostro Drogo, supera il confine della vita marziale per intraprendere un’esistenza diversa, isolata e nascosta ai più. Essendo il tutore di un nipote di cui non ha un’alta opinione, si ritrova ad amministrare il suo futuro patrimonio: un vasto terreno comprendente il Bosco Vecchio e una casa al suo interno, dove si trasferisce. Quando la narrazione pare avviarsi su binari già sperimentati, ecco che un gazza, sì, una normalissima gazza, si mette a parlare con il protagonista che non batte ciglio. Non è importante che il loro dialogo termini con una schioppettata diretta al povero uccello, come non ci interessa sottolineare la fama ostile che gradualmente il buon Procolo attira su di sé. Quel che preme evidenziare è la straordinaria vitalità di un luogo apparentemente dimenticato dalla mente umana, un bosco in cui la natura ha una sua voce, varie identità sfaccettate e inquilini del tutto singolari. Di fronte a geni, venti chiacchieroni, battaglie tra larve e insetti, abeti millenari e feste dal sapore sabbatico o quantomeno celtico, la mente del lettore è stuzzicata, irretita dalla tenue magia che si dispiega con lenta armonia. I brevi capitoli formano un compendio gustoso di bizzarrie ed eventi ai limiti del credibile che ben presto vengono assorbiti dalla timida reticenza del bosco. Sebastiano è un uomo solo, disabituato al calore umano. Non ne sente la necessità e la vicinanza lo mette in scacco come fosse una strana malattia, una perversione da tenere a distanza. Eppure, entrando a contatto con le entità della foresta, impara che vivere condividendo parte delle proprie esperienze non è sinonimo di debolezza, bensì di maturità. Non che ci tenga ad essere aperto e disponibile, Procolo ha un carattere orsino. Burbero, scontroso e testardo, non accetta e non riconosce il cambiamento che sta attraversando, nonostante le sue azioni parlino per lui. L’iniziale ostilità per il mondo boschivo, per quei geni che ai suoi occhi altro non sono che impiegati da sfruttare per ottenere un mero guadagno economico e per ciò che esula dal disegno che della vita ha tracciato in solitudine si scioglie nel riconoscimento di non poter continuare la propria battaglia con la vita con il cipiglio del titano che osserva il mondo dall’alta rupe nebbiosa. La lotta è aspra, dura e fatale per Sebastiano che, incapace di esprimere apertamente la sua nuova sensibilità, soccombe ad uno scherzo inscenato da un altro personaggio che, pur di farlo contento, decide di comunicargli una notizia terribile un tempo auspicata dallo stesso Procolo. Matteo, il temibile vento caduto in disgrazia, ha seguito il padrone fino alla fine, seguendo le orme del suo cambiamento senza avvedersene. Ed è per questo che, avendo legato a lui la sua esistenza, si dissolve nell’aria con il rimpianto di non aver mai compreso davvero cosa passasse nella mente di Sebastiano.
Il bosco, vivo più che mai, in equilibrio, non può che rendere un estremo saluto al suo ultimo padrone, che se ne va dignitosamente, come un gentiluomo, coperto di neve dopo aver tentato di salvare la fiammella del futuro, il barlume del dopo incarnato dal nipote Benvenuto, in realtà mai in pericolo.
I geni tornano nei loro alberi, pronti a contare le circonferenze delle cortecce per stabilirne gli anni.
Gli uccelli si nascondono sotto un’ala, sperando di riaddormentarsi.
Benvenuto si lascia alle spalle la crisalide dell’infanzia per diventare un uomo a tutti gli effetti.
E il lettore ha l’impressione che qualcosa sia finito davvero e che le voci non diventeranno altro che fruscii indistinguibili dal resto.
Ogni tanto di una storia così c’è bisogno.
Ma un dubbio rimane.
È difficile dire se la nostra sia un’epoca fertile per simili timidezze.

Photo by kazuend

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