Signore, non si fa

C’è il sole alto nel cielo, nascosto da una coltre di gabbiani in volo. L’odore di caldarroste si mescola a quello dei fumi di scappamento delle automobili. Schiamazzano, gridano, si muovono a ritmi diversi i personaggi che camminano sulla strada, per le vie di una città di basse palazzine. Una donna dal grembiule sporco, in punta di piedi sul bordo del marciapiede, sorveglia due piccioni che beccano una fetta di pane duro che ha appena lanciato loro.

Nonostante la luce chiara riflessa dalle molte vetrine, Patrizio sente freddo. Si stringe nel cappotto, infila le mani in tasca, poi, indeciso, se le porta vicino alla bocca e soffia, o meglio, alita, sulle nocche screpolate. Pensa al grande dono di una bella giornata autunnale e al suo umore ballerino degno di un burlesque. Una ragazzina, minigonna e capelli lunghi fino ai calcagni, sfila accanto alla madre, maglietta allentata dai numerosi lavaggi e capelli spettinati da primo treno del giorno. La piccola assume pose da adulta, quasi come le avesse rubate alla donna al suo fianco. Si porta le dita corte e bianche come la neve vicino le labbra ed è come se una minuscola sigaretta giocattolo si manifestasse dal nulla, graziosa e delicata come i giochi dell’infanzia. Di riflesso, come se qualcuno avesse premuto un bottone da qualche parte, la madre inizia a lanciare sguardi obliqui a destra e sinistra, in preda all’inquietudine. Fa per parlare, apre la bocca. Eppure scuote la testa e si caccia le parole in gola assumendo un cipiglio da lottatrice. Sono belle quelle due, pensa Patrizio superandole con una lunga falcata. Non c’è alcunché di sbagliato, del resto. Anche lui, quando camminava con il padre per il paese, faceva finta di essere un adulto, un uomo fatto e finito. Si sentiva orgoglioso quando gli amici di famiglia che gestivano il bar a cento metri da casa loro gli fischiavano dietro sventolando la mano dal basso verso l’alto come stessero girando le uova in una scodella. Il paese, adesso, era diventato una fila di ruderi colonizzati dai gatti.
Un cameriere lo supera di gran carriera, tagliandogli la strada. Indossa un’uniforme tirata a lucido, dalle pieghe che perfettamente gli circondano il corpo. Su una mano tenuta alta sopra la testa trasporta un vassoio carico di bicchierini bianchi di plastica. Lascia dietro di sé una lunga scia di caffè e ginseng.
Sono le nove e un quarto del mattino, Patrizio sta camminando per la città alla ricerca di un posto dove poter passare una mezz’ora tranquilla. Sa bene che è una bugia che racconta a sé stesso, nient’altro che una menzogna con la quale dà pace alle sue gambe in astinenza da movimento. Ignora che già da quaranta minuti cammina, spaesato, con lo sguardo che salta ora su un’insegna colorata, ora sulle pozzanghere torbide vicine ai tombini.
Le porte di un autobus fatiscente si aprono a pochi centimetri dalla sua spalla sinistra e una fiumana di gente invade la fermata e ogni centimetro di asfalto disponibile. Sciamano, vociferano, si diradano e diramano come tanti vettori in mille direzioni diverse. Nella folta giungla di auricolari, borselli e valigie, si chiede da quant’è che non viaggia. Da quando la parola “mutuo” ha soppiantato quella “serata”. Da quando le mete gli sono entrate direttamente in casa, dalla finestra come gli insetti non voluti.
Patrizio amava i documentari. Adorava l’andamento cantilenante delle loro sigle, le voci impostate e ordinate dei presentatori e quel lento scorrere di immagini a dir poco incredibili, capaci di trascinarlo in ogni punto del globo come per magia. Ecco le steppe della Russia, i colbacchi dei cosacchi, i baffi affilati e curati dei guerrieri mongoli. E ancora, le monumentali opere perdute del Sud America, le usanze delle infinite tribù africane, i luppoli di una Germania ancora confezionata nel pacchetto regalo delle tremende fiabe dei fratelli Grimm. Patrizio, a nove anni, sognava di prendere un battello e di salpare alla ricerca della fine del mondo. Voleva superare le Colonne d’Ercole, ma che nome stupendo, che nome avventuroso!, e battere le onde impetuose e le bonacce più arrendevoli. A dieci anni, gonfio di aspettative, sapeva di poter diventare un astronauta, ma ambiva alle profondità abissali dell’oceano. Eccolo, uno scandaglio tempestato di graffi in mano, lo scandaglio si teneva in mano? Non lo sapeva, e una carta nautica con la quale orientarsi nel vero regno terrestre. A undici anni era stato già un esploratore di rovine antiche, un soldato della Prima guerra mondiale, un alieno proveniente da un universo distante. Un coltivatore di pannocchie e un cowboy texano. Cesare, Carlo Magno e Mutsuhito.
Lampeggiano i fari di una macchina ferma a guardarlo. Si riscuote. Dilata le pupille e si tasta le tasche dei pantaloni. Ci sono le chiavi, il portafogli e il cellulare. Tutto in regola.
Il suono stordente del clacson lo schiaffeggia. Si deve levare di torno, togliersi di mezzo, sgomberare le strisce pedonali che sta occupando impropriamente.
Sono le dieci e un quarto ed è stato già viaggiatore e mendicante, un cadavere steso sull’asfalto e un uomo miracolato salvato dalla pazienza di un suo simile con le dita pronte a suonare di nuovo il clacson.

Deve aver attraversato innumerevoli vite, Patrizio. Si ricorda episodi che non ha mai vissuto, confonde la realtà con la fantasia e la veglia con il sonno. Ad esempio, è mai stato alle Canarie a bere un cocktail servito all’interno di un ananas? È mai andato in una scuola privata con gli armadietti personali al posto dei pesanti zaini che gli hanno peggiorato il suo principio di scoliosi?
Il barista lo guarda mentre prepara i cappuccini numero trecento uno e trecento due della giornata. Ha visto questo ragazzo entrare nel locale, chiedendogli cosa desiderasse. È ancora in attesa, ma poco importa. Ogni ventitré secondi d’orologio un nuovo cliente si affaccia dalla porta principale.
Patrizio conta e riconta i suoi anni. È nato nel, il giorno del mese, quando fuori, a detta della madre, il cielo prometteva neve. Ovviamente non può avere in mente questo momento, eppure gli riesce facile vedersi dall’alto, un piccolo essere infagottato che stringe le dita delle mani per la prima volta, prendendo l’aria, la luce, il sorriso dei genitori, tutto, tutto nella sua presa da innocente.
Attraverso varchi e schermi ha scoperto le innumerevoli bellezze del mondo. Ha avuto ad un palmo dal naso i fiori dell’Amazzonia e i ghiacci perenni, i capodogli e le tigri dai denti a sciabola. Si è invaghito e poi si è saziato. Non si è perduto, ma si è sempre ritrovato. Ha sbocconcellato i colori della tavolozza, li ha leccati fino a ritrovarsi sulla lingua uno strano miscuglio di tutte le tonalità. Da piccolo non lo sapeva, ma mischiare tutto ciò che c’è di bello non genera necessariamente qualcosa che ne somma tutte le fantastiche qualità. Unire la gioia ad altra gioia può generare, paradossalmente, anche un risultato esplosivo e terrificante.
Ha ordinato un caffè, il numero cinquecento quarantasei.
Ne sorseggia la prima metà, poi ne ingolla la seconda in un sorso solo. Paga e straccia lo scontrino. Lo getta a terra, ignaro di aver mancato il cestino. Il cigolio della porta automatica lo immobilizza. Un déjà-vu lo ha colto impreparato. Quante volte, negli ultimi giorni, ha calpestato le stesse orme, seguito gli stessi passi e pensato le stesse cose? Quando, in sostanza, è diventato tutto così automatico e scontato, così pulito, comodo e ordinato? Vorrebbe riscuotersi, ma un vago malessere lo paralizza. Afferra lo spigolo del muro, piega la testa in avanti e un conato caldo e velenoso gli sale dalle viscere.
Ma, prima che sia troppo tardi, un dito ossuto gli picchietta sulla spalla.
– Signore, non si fa. –
Non si fa cosa? Pensa Patrizio. Quale di tutte queste azioni non si possono fare? Posso stare qui, adesso, senza sentirmi gonfio di esperienze mai vissute, senza avere la certezza di trovare banale il quadro più sconvolgente, sciocca l’escursione più mozzafiato?
– Signore, non si fa. –
Ribadisce il ragazzo, piuttosto giovane, che lo sta redarguendo. Ha un paio di occhiali dalla montatura fina, un vecchio modello che in giro si vede poco, i capelli castani gettati tutti da un lato e un maglione che perde evidentemente fili e stoffa e tessuto in vari punti.
– Cosa? – Riesce ad articolare Patrizio, la bocca storta e gli occhi allucinati.
– Non si gettano le cartacce a terra, sa, è da maleducati. – Lo rimbrotta il giovane con una voce che ancora non sembra nemmeno adulta. Una voce incrinata dall’imbarazzo e dalla determinazione, fresca e vibrante.
Patrizio scuote la testa, ritorna sui suoi passi e getta nel cestino lo scontrino. Poi guarda il ragazzo e gli fa un cenno di saluto e di ringraziamento.
Quello inforca gli occhiali, sorride e quasi le gote gli si colorano di rosso.
Patrizio ride e si sente in un luogo meno familiare, ride e il fondo degli occhi inizia a pizzicargli, chissà per quale motivo.

Photo by Steve Johnson

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