Un pittore, uno scultore e un poeta si incontrano in un bar. Il primo indossa un basco, una giubba colorata e macchiata, calzoni lunghi e rattoppati. Il secondo mostra un fisico statuario nonostante abbia una leggera gobba che gli increspa la schiena. È calvo, ha una sciarpa attorno al collo e la polvere sulle spalle. Il terzo si sta versando il secondo bicchiere di vino rosso della serata ed è seduto sullo sgabello da meno di venticinque minuti. È scomodo, cerca la posizione migliore senza trovarla. Ha delle occhiaie poco pronunciate e uno scontrino scarabocchiato davanti agli occhi.
– A me hanno rubato il pennello. – Dice il pittore.
– A me lo scalpello. – Fa lo scultore.
– A me la penna. – Sentenzia il poeta.
– A noi lo stile. – Recitano assieme, tanto che di tre voci se ne sente una sola.
Siamo nel 1839 e la dagherrotipia viene presentata al pubblico per la prima volta nella storia. Pensate un po’, trattasi di una tecnologia in grado di imprimere una scena su una lastra, a lungo, con una precisione sensazionale. Bastano poche accortezze, lo studio di qualche reazione chimica et voilà, eccoci di fronte ad un prodigio della tecnica. Matrimoni, ritratti, passanti, celebrazioni pubbliche, feste ed elezioni. Tutto può cader vittima dell’occhio del dagherrotipo, un occhio in grado di consegnare in relativamente poco tempo un ricordo stampato, così da immortalarlo.
Un pittore come dovrebbe reagire di fronte ad una simile stregoneria? Adattandosi o morendo. E come potrebbe adattarsi? Innanzitutto, imparando ad usare lo strumento, facendone propri i segreti e le particolarità. Ma come potrebbe poi impiegarle nella sua vecchia arte? Questo artificio mozzafiato è in grado di catturare un paesaggio nel tempo in cui il pittore sistema il cavalletto, la tela e la tavolozza sul ginocchio. Non solo, lo fa con una qualità e una puntualità nel cogliere i dettagli che lo lascia tramortito, intontito e ciondolante. Pensa a come uscire da questa impasse terrificante e, ad un certo punto, coglie l’aspetto che alla macchina manca. Certamente, come ha fatto a non pensarci prima? I suoi occhi non sono quelli dell’obbiettivo. Non può simulare la sua esperienza di vita, né la complessità della sua intera esistenza. Lui c’è un motivo se inclina il pennello di trentasette gradi quando tratteggia la sagoma di un albero. Se quando il sole fa capolino sul bordo superiore della tela si sposta di lato, di circa centotrentacinque gradi, per ottenere l’effetto desiderato. E poi, e poi. Il dagherrotipo non è in grado di cogliere certe sfumature che l’occhio del pittore è sicuro di intravedere.
Questa cattedrale, questo bosco, questo stagno, gli appaiono sotto una luce difficile da definire, una luce che necessita di un occhio allenato, critico e preparato per essere raffigurata e portata in scena. Ed ecco che l’autostima del pittore, proporzionalmente alla sua età che avanza, scopre nelle idiosincrasie del suo occhio, della sua percezione, il segreto per battere il nuovo demonio dal risultato garantito. Non solo, arriva addirittura a pensare che un suo errore, avete capito bene, un suo errore, può avere più valore dell’asettica perfezione di una riproduzione statica. Ha ancora qualcosa da offrire al mondo, al suo pubblico e all’arte umana in generale.
Inizia a lavorare sulle sue impressioni, sugli scorci più rapidi e fugaci che riesce a esplorare e sulle bellezze di una natura mai sazia di dire la propria. Piante, fiori, frutti. Uomini, donne, bambini. E ancora templi, porti e fari. Tutto, tutto, può cambiare in un batter d’occhio. Se la luce un giorno cade con una pendenza diversa, ecco creato un gioco prospettico inaudito. Se le nuvole ottenebrano una porzione di terreno lasciandone un’altra a bagnarsi al sole, ecco creato un nuovo punto di vista. E sapete cosa? Il pittore è un individuo sagace, sveglio. Decide di mescolare tra di loro queste due intuizioni per creare qualcosa di totalmente eversivo, qualcosa che la natura stessa non potrebbe generare pur nella sua immensa fantasia creatrice. Illustra un luogo, sempre lo stesso, per più di cinquanta volte. Nel farlo, scopre che ogni giorno, incredibilmente, la vita è totalmente diversa da quella del giorno prima. Questione di dettagli, di piccolezze e sottigliezze, ma le tessere del mosaico dell’esistenza non dormono mai, sono in continua evoluzione.
Il pittore è contento del suo operato, e le innovazioni nel campo della fotografia gli giungono lontane, come fossero echi sconfitti di un nemico abbattuto. Non è sazio, il pittore vero non lo è mai, e per questo porta agli estremi la sua tecnica, affina il suo stile a tal punto da intrecciare il presunto oggettivo con il presunto soggettivo. Nei fatti, eccolo transitare dall’impressione alla pura e sregolata espressione. Ah, divide tutto in sezioni, sfrutta le forme geometriche di tutti i tipi, sperimenta con i colori, con i materiali delle tele, le rompe, le gualcisce, le strappa e le ricompone. Che il suo soggetto sia astratto o concreto, reale o illusorio più non importa. Esprime sé stesso e tanto gli basta.
Intanto, l’eco sorda del vinto aumenta di tono. Pare quasi voglia far la voce grossa.
Il pittore riproduce e si riproduce, costruisce e si costruisce, fin quando nella spirale della fantasia, alle volte indotta da fattori esterni molto lusinghieri quanto coercitivi, scopre di aver perso di vista l’originale. Ha intorno copie. Copie di copie. Copie di copie di copie. È forse diventato un falsario? Sciocchezze, non si può plagiare sé stessi! … Oppure sì?
Mentre il pittore cerca sé stesso, e si ritroverà, statene certi che si ritroverà, la tecnologia a balzi gargantueschi giunge al presente. Al trionfo della “riproducibilità tecnica”, dell’analisi statistica di mercato e delle mirabolanti tecniche pubblicitarie.
Gli strumenti diventano accessibili per i più. La fantasia viene stimolata attraverso input frequenti al limite con l’ossessione. Le strade si spalancano innanzi ai nuovi virgulti che colgono negli esempi dei loro idoli i suggerimenti per emulare il loro percorso.
Tanti pennelli e tante matite digitali si alzano all’unisono, pronte per ricalcare, ma solo in parte!, le orme di chi li ha preceduti. Scoprono, a tentoni, sperimentando, che uno più uno può far tre o addirittura meno due. Che unire vari consigli e varie esperienze è in grado di dar vita a risultati imprevedibili e quasi sempre degni se non di nota, d’attenzione.
I trascorsi personali dei portatori dei pennelli, che siano illustratori, fumettisti, ritrattisti, inchiostratori, coloristi e chi più ne ha più ne metta, sfondano a calci le porte della tradizione, la rimestano, la rimescolano e la arricchiscono. Attraverso il duro lavoro e l’impegno trovano una marca, nel deserto sterminato delle lacrime, ossia nella vocazione artistica, si confrontano con il loro ideale. Sentono, capiscono, che ogni azione li ha portati esattamente lì, in quel posto, in quel momento, con quella matita in mano e con quel soggetto in mente. Tutto li ha condotti ad affinare quello che finalmente possono dichiarare di aver raggiunto: uno stile.
Ed ecco che il balzo gargantuesco della tecnologia si mette in mezzo. Con le sue fauci titaniche mangia il passato, idolatra il presente e schiaccia il futuro. La voce del vinto si fa roboante e cala dalla manica l’asso del trionfo. Le intelligenze artificiali, come droni spediti all’inseguimento di pochi fuggitivi, analizzano, campionano, riproducono il frutto di giorni, settimane, mesi, anni, secoli, millenni di tecnica e ottengono, in poco più di un petosecondo, un risultato … già decente, già … bello, dannazione.
E il pittore, quel pittore che abbiamo lasciato mentre cercava sé stesso, lo ritroviamo adesso di fronte ad uno schermo, mentre un tale dal nome impronunciabile gli posta davanti un quadro nel suo stile. Etichettato, scandagliato, catalogato. Riproducibile come uno stampo.
E dov’è il sentimento, dove l’anima umana che ha sostanziato la creazione di quello stile adesso sbandierato ai quattro venti come fosse un fazzoletto di poco conto?
Nell’ignoranza di coloro che non sanno cosa ci sia dietro. Nell’occhio non allenato dello spettatore che non distingue il falso dal vero, l’originale dalla copia. E che lui si chiami X o Y poco importa, tutti i suoi sforzi sono stati catturati, seviziati e sviscerati.
È costretto a godere dell’algoritmo che crea una galleria con le opere che sarebbero state sue, se non gli avesse plagiato anche l’etichetta delle mutande.
Il pittore, lo sculture e il poeta ordinano una bottiglia di assenzio sapendo che non basterà.
Photo by Chela B