Il botteghino dei balocchi coloratissimi

Mi sono imbattuto in una storia dei primi anni del Duemila.
Una storia famosa, apprezzata e facilmente riconoscibile. Ci sono inciampato sopra grazie ad un servizio di streaming che, una volta pagato, sarebbe stato inutile non sfruttare appieno. Oltre a vedere l’immagine organizzarsi nel formato in 16:9, constatazione che mi ha fatto invecchiare di ulteriori venti anni in un solo istante, sono stato investito dall’apparente banalità dei contenuti. Elencavo nella mente le scene già viste, gli argomenti già trattati, le soluzioni già sperimentate fino alla nausea. Dimenticando ovviamente un fattore centrale, ossia che mi trovavo di fronte ad una serie che probabilmente aveva preceduto tutte quelle tecniche che andavo considerando ormai cliché triti e ritriti.

Eppure, continuando la visione, proprio quella semplicità mi ha catturato. So bene che in ogni prodotto cesellato per essere venduto entra in qualche modo un aspetto puramente pubblicistico, strategico oppure logistico, ma ciò non ha convinto del tutto il mio cervello sospettoso e vagamente cinico sull’industria dello spettacolo. Le interazioni tra i personaggi, i loro dialoghi mai sopra le righe e mai superficiali quanto gli approfondimenti sociologici di un reality show, e le loro motivazioni mi ricordavano che, in fondo, non era impossibile impacchettare un bel contenuto senza renderlo necessariamente artefatto, falso ed eccessivamente targettizzato. Di fronte a quelle scene di vita possibile stavo quasi incantato, senza poter prevedere davvero cosa sarebbe successo. Va bene, questa sospensione incredula non si applicava a tutti gli episodi, ma la sensazione di trovarsi davanti ad uno svolgimento plausibile era forte e, strano a dirsi, vivificante. La struttura dei singoli spezzoni era piuttosto chiara, ai limiti del didascalico, eppure la cura di alcuni piccoli dettagli la faceva risaltare, illuminandola di luce propria. E, spesso, proprio questi dettagli, a tratti insignificanti, mi davano l’idea di un qualcosa che sarebbe potuto succedere in quel momento, da qualche parte nel mondo.
Facciamo un esempio. Due amici si incontrano per caso, uno dei due aggiorna l’altro sulla sua relazione sentimentale (siamo in un mondo in cui non esistono smartphone) e sullo sfondo, quasi invisibile, sicuramente superfluo, accade qualcosa che non aggiunge nulla alla scena in sé, nonostante la arricchisca silenziosamente. Potrebbe comparire un camion degli hot dog con una scritta che ricorda un determinato evento storico oppure un elemento che preannuncia il cuore di uno stacchetto ironico che avverrà solo quando i due protagonisti avranno smesso di conversare. Un uomo all’interno di un costume a forma di pollo, una lavagnetta con sopra delle equazioni schizofreniche e magari un intero incontro di wrestling organizzato con poche comparse, pochi mezzi, e tanta voglia di fare.
Mi rendo conto che sia un esempio molto vago, ma quella che voglio sottolineare in questo caso è una sensazione, una sfumatura che mi sembra di cogliere nella passione di coloro che avevano girato quella determinata serie televisiva. Ho capito, con qualche episodio di ritardo, che a stupirmi era soprattutto l’invidiabile coerenza interna mostrata dagli avvenimenti sceneggiati. Certo, suspence e colpi di scena non mancavano, ma non andavano mai a ledere l’integrità delle leggi di quel mondo fittizio. Nulla cadeva preda della Sindrome della Scena Acchittata, quella speciale malattia che coglie i registi, i quali pur di realizzare una scena esattamente come l’hanno immaginata piegano gli eventi ai propri capricci. Tutto ciò manca in questa storia, alla quale potrei anche dare un nome, ma non so quanto valore aggiungerebbe al mio pensiero.
L’estetica di ogni singolo oggetto non era curata fino all’esasperazione.
I dialoghi tra i personaggi non erano forzati al solo scopo di mettere in mostra ora questa opinione, ora quest’altra battaglia.
L’indignazione non veniva cavalcata in ogni singola scena e non faceva parte del motore della trama.
Tragedie, eventi lieti, azzardi e vittorie erano ammantati di una patina di riserbo e di naturalezza, quelle due qualità che rendono un evento credibile, scorrevole e incapace di saltare all’occhio come un errore nel Matrix.

Questo sproloquio mi è servito per concettualizzare alcune caratteristiche della narrativa contemporanea che mi generano un moto di stizza istintivo. E in questo grande calderone ovviamente inserisco la narrativa per immagini, compresi film, serie tv, fumetti e quant’altro.
1) Il predominio dell’immagine su … tutto il resto.
2) L’assoluta disattenzione nei confronti della coerenza interna, questa dea fragile e dileggiata dalla moda dei colpi di scena e del sensazionalismo.
3) L’artificiosità delle situazioni costruite a tavolino (sebbene, a rigor di logica, siano tutte “costruite a tavolino”).
4) La ricerca ossessiva di un’originalità che ha tutti i tratti di una stramberia manierista e che, in fin dei conti, essendo da tutti ricercata diventa scialba, prevedibile e scontata.
Di fronte all’ennesimo omino in calzamaglia che salva il pianeta Tal dei Tali dal nemico sciocco e dannato oppure alla messa in scena di scontri tra gang improbabili che ricalcano sempre lo stesso modello, mi chiedo se la nostra capacità collettiva di evadere dalla realtà non ci abbia fatto regredire allo stato di bambini nevrotici che necessitano costantemente di un piglio sicuro (e coloratissimo!) per mantenere alto il livello dell’attenzione.
È meglio una storia curata e non pretenziosa oppure un carrozzone di effetti speciali e volti da sex symbol che deraglia sulle montagne russe dell’eccesso fine a sé stesso?
Serve una situazione di mezzo, mi direte voi, un compromesso. È sciocco essere così tanto drastici ed estremisti. Sono d’accordo, mai lasciarsi prendere la mano dal bianco e dal nero.
Ma facciamo un giro per vedere quali sono gli spettacoli di successo al botteghino …
Sicuramente tutte opere che si fanno ringraziare dallo spettatore, che uscirà dalla sala cambiato, punto sul vivo, stimolato a rivoluzionare la propria vita (e non ubriacato di lucine, sentimenti da fast food o take away e scioglimenti da far venire il latte alle ginocchia ad un ruminante).

Photo by George Filippopoulos

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