PoesiaSei – Crepuscolo urbano

Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Il signor Guglielmo è solo nella sua abitazione. È nato e cresciuto in città. La città dei suoi antenati, del padre, della madre e anche dei nonni. Addirittura, c’è chi dice nella stessa casa, difatti le pareti son pregne di storia famigliare, di parole dette e non dette e di tragedie a lieto fine così come di commedie terminate in malo modo. È solo perché a casa, con lui, non è rimasto che il ricordo di tanta vitalità. Di baruffe e schermaglie che, sotto sotto, davano colore a quell’intonaco cadente eppur intimo.
Nel corridoio misura a passi lenti e misurati la lunghezza del suo possedimento: cinquanta metri quadri di puro dominio urbano. Cinquanta metri quadri di angolo cottura più salotto, di un bagno scalcinato, una camera da letto e un ripostiglio onorevolmente trasformato in una stanza per gli ospiti. È un regno intero, una terra degna di un vecchio vassallo, fedele al suo re e alla sua nazione.
Guarda i libri riflessi sulla porcellana buona, quella in mostra e mai sul tavolo. Le macchie sulle finestre, dovute alla pioggia della sera precedente. I cardini arrugginiti delle porte, che cigolano al solo sguardo, figurarsi al tatto. Il signor Guglielmo non ha altri con cui condividere queste osservazioni se non la sua poltrona bucata e il forno a microonde. Si trova in bilico tra la voglia di accendere la televisione, inebriandosi di parole gridate in maiuscolo, e il desiderio di accendere lo scaldabagno, chiudersi immotivatamente a chiave nel bagno e farsi una doccia per consumare il prurito che gli agita la pelle e ciò che v’è sotto.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:


Allora, saggiamente, decide di non farsi ustionare dal bollore dell’acqua della doccia e, uscito dal vapore come un profeta d’altri tempi, prende i vestiti, si infila il cappotto e si dirige verso la porta, pronto a lasciarsi l’appartamento alle spalle. Vuole uscire e non venir sommerso, dai suoi pensieri così come dalla calca, dalla folla. Vuole giungere Altrove, nell’intersezione esatta tra l’interno e l’esterno, in quegli interstizi dove si dice sopravviva ancora la magia. Non conosce altre vie per scacciare l’inquietudine e per soffocare l’ansia di ritrovarsi isolato a casa, a contare i passi tenendo una mano sul muro di cui conosce la consistenza neanche fosse un abile muratore.
I rumori delle sirene, dei clacson, delle porte automatiche e dei carrelli della spesa lo accolgono. I suoni dei motori, dei tubi di scappamento, dei citofoni e degli arrotini lo accompagnano. I sussurri delle obliteratrici dei biglietti, dei malanni lanciati dai mendicanti, dei cucchiaini che tintinnano sui piattini e delle casse che fanno ka-chin lo irritano. Lo infastidiscono a tal punto che non ha in serbo gesti allegri o pose simpatiche da offrire al passante in ritardo che gli infila un dito ossuto nella clavicola purché si sbrighi. La sua vita corre e pulsa come la sua aritmia cardiaca e poco importa che rallentando migliorerebbe in generale la qualità della sua esperienza su questo bel pianeta.
Guglielmo, un diavolo per capello, del resto si è scordato di pettinarsi e i suoi tre ciuffi distanti e ridicoli ne hanno sempre un gran bisogno, schiaffeggia l’aria per indicare ad un autista munito di auricolari che dovrebbe accostare per permettergli di salire.
Forse è per i suoi occhi rossi incendiati dallo smog che qualcuno dei presenti ha il coraggio di pensare “non voglio trovarmi nei paraggi quando questo tizio esploderà”.

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.


Guglielmo scende in un parcheggio, là dove un tempo campeggiava un benzinaio, la pianura sterminata e un pascolo fiorente. Non è vero, si sbaglia. Lì c’era una sala per giocare a bowling, i suoi sabato sera erano trascorsi su quelle piste, gli amici già brilli, le cameriere carine, qualche fischio di troppo indirizzato alle loro caviglie scoperte. Cosa dice? Si è forse rincitrullito del tutto? In quel luogo sorgeva il barbiere del borgo, prima che iniziassero a chiamarlo quartiere. E quel barbiere, a dirla tutta, era gestito da uno zio, o forse da un cugino, che non vedeva più da tempo. Idiota, pensa ad un tratto, lì si era organizzato lo spaccio, il negozietto, ma sarebbe meglio chiamarlo baracca, che permetteva ai contadini di prendere i prodotti a credito.
Ancora un errore. Ma poco importa.
Quei ricordi sovrapposti, quei luoghi ormai sostituiti in ogni loro particella e mattone, lo conoscono meglio di ciò che vede adesso. Il parcheggio è semivuoto. Un camper all’estremità destra, una macchina senza pneumatici a quella sinistra. Dietro, la brulicante massa di mezzogiorno, ignara che lì un tempo si coltivassero le arance.
Ovviamente è un errore anche questo. Ma poco importa.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co·llui.


Guglielmo, poco prima di gettare la spugna, viene raggiunto, ebbene sì, viene raggiunto da ciò che l’ha pedinato a lungo, che l’ha tampinato fin qui. Ed è pronto ad abbandonarvisi, ne percepisce l’alone rossastro, la fragranza di mandorle, nocche e noci, il tocco delicato, amorevole, il bisbiglio tenero e accorato e il gusto indefinibile sulla punta della lingua.
Non è più solo, lui è qui.
Il principe bambino con la sua corte splendente che, pian piano, lentamente, di soppiatto … copre la luce che tutto indica per gettare il mondo nel freddo regno dell’oscurità.
Tramonta il sole sopra la testa del signor Guglielmo.
La frutta secca che lo ha ingannato viene trascinata via da un venditore ambulante.
Ciò che prima lo accarezzava, il vento, adesso lo sferza.
Il bisbiglio si fa rombo, infine tuono.
Nella bocca sente una stilla di sangue, deve essersi morso.

Un saluto a Ciccio Petrarca.
Photo by Dewang Gupta

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