Sentirsi spaesati significa, alla lettera, percepirsi fuori luogo nel posto in cui ci si trova. Senza un paese e senza una provenienza specifica. Apolidi, in un certo senso. E tale sensazione è ancor più forte nel momento in cui si calcano i marciapiedi della propria città natale. È strano, pensandoci, che ci si può ritrovare nei panni dello straniero addirittura in quelle vie che per prime ci hanno accolto nella vita. Perché si genera questa sensazione?
Forse perché qualcosa è cambiato irrimediabilmente, ad esempio sono stati demoliti i vecchi edifici sui quali hanno costruito nuove palazzine, alte il doppio e abitate da sconosciuti che vivono fianco a fianco. O magari, là dove prima resistevano piccole attività d’artigianato, adesso splendono delle vetrine colorate. Sfoggiano cover per il telefono, caricabatteria non di marca, adesivi da attaccare allo zaino e quaderni dalle copertine bizzarre. Non che ci sia alcun male, chiariamolo subito, bisogna solo sottolineare l’avvenuto mutamento. Non c’è alcun giudizio valoriale, piuttosto un’osservazione che vorrebbe essere neutra al cento percento. Gli alberi dell’infanzia sono stati sostituiti (magari sono stati solo potati e fatichi a riconoscerli), gli inquilini si sono spostati, il forno di fiducia ha chiuso per essere sostituito da un supermarket aperto ventiquattro ore su ventiquattro. Ed è per questo che, camminando per quelle vie al tempo stesso familiari e sconosciute, a volte, neanche sempre, capita di sentirsi spaesati. L’immagine nitida del ricordo, benché fumosa a causa della labilità dei ricordi stessi, è ormai cristallizzata nella mente e recepisce con fatica un’innovazione di quel tipo.
Quale potrebbe essere un modo per recuperare parzialmente quel sentore di comunità e di intimità che sembra perso negli strati della storia? Ritrovare le proprie radici, scavare, a mani nude, nella terra del passato per rivangare quelle storie che, volenti o nolenti, ci rendono quel che siamo. Ovviamente quella tra il presente e il passato non è una corrispondenza biunivoca: se il tuo bisnonno ha frustato un contadino per avergli rubato una cesta di pomodori non è detto che tu custodisca ancora, intatta e pronta ad esplodere, quella rabbia da qualche parte nel genoma. Così come, se invece il tuo bisnonno fosse quel contadino ferito, allo stesso modo non ci sarebbe nessuna vena ladresca o insofferente nei confronti dell’autorità nascosta tra le pieghe della tua carne. Il passato non sempre ci dà delle risposte esatte. Il nesso causale, la vecchia legge che postula che ad una causa corrisponde sempre un effetto, spesso finisce per essere un groviglio di fili difficile da districare. Ciononostante, alcuni eventi, pochi a dirla tutta, possono essere considerati delle pietre miliari. Dei punti fermi nel percorso di rievocazione. Che i nostri genitori siano nati è un dato di fatto, che abbiano avuto a loro volta dei genitori anche. Che abbiano vissuto per un determinato lasso di tempo in una casa, in un paese, in una città, è relativamente accertabile, sebbene sulla cronologia esatta di questo periodo si potrebbe discutere a lungo. E via discorrendo, sulla china della ricostruzione, si è in grado di abbozzare un albero genealogico attendibile, con tanto di parenti mai visti né sentiti nominare. Questa operazione, in mancanza di prove tangibili come vari album di fotografie, documenti ufficiali e ricordi personali, può necessitare l’aiuto di tutti coloro che, per forza di cose, sanno per esperienza diretta cose per te impossibili da immaginare.
Correndo tra una traccia e l’altra, spostandoti tra un appiglio e un altro, pian piano emerge un quadro piuttosto dettagliato della tua storia prima che esistessi. Di quella storia che è humus e condizione necessaria affinché tu stia seduto al tavolino del soggiorno a buttar giù delle memorie di persone mai incontrate con le quali però senti un legame che a parole non sapresti descrivere.
Senza che tu te ne renda conto, hai ottenuto delle radici. Hai scavato, spalato, preso a badilate la terra ora umida, ora tosta come un mango, fin quando non ne hai cavato fuori queste storie solidificate che ancora un volta chiameremo radici. Potresti sentirti parte integrante di queste storie, oppure doppiamente alieno, un ramingo alle prese con una terra sconosciuta e inghiottita dal tempo trascorso.
Ciò che resta di questa progressiva ricerca sono le informazioni scoperte durante il tragitto e le inevitabili conseguenze che hanno sulla tua psiche. Siamo animali simbolici, almeno in parte, e siamo anche facilmente suggestionabili. Non mi sorprenderebbe scoprire che qualcuno è capace di rivedersi nel trisavolo mazziniano immedesimandosi con lui a tal punto da capire in qualche modo astruso come affrontare la vita quotidiana del XXI secolo.
La costruzione dell’identità personale è un viaggio che non si ferma mai, anche quando il corpo è statico e immobile. È, tra le altre cose, anche una specie di spazio mentale colmo di tutte quelle cianfrusaglie che ci definiscono. E, come in tutti i luoghi, è possibile sentirsi spaesati anche all’interno della propria identità. Perché?
Forse perché qualcosa è cambiato irrimediabilmente, chissà.
La riscoperta delle proprie radici e della propria storia famigliare è al centro di molti tra i più bei romanzi della letteratura contemporanea. In un momento storico dove le incertezze sembrano aver spodestato le certezze (sebbene ogni generazione si consideri in un certo senso la più incerta e la più sfortunata) e dove universalmente si tende a lamentare la mancanza di una comunità di riferimento forte e protettiva, si cerca di colmare questo vuoto attraverso l’instaurazione di legami a grandi distanze, fortemente ideologizzati o connotati. Quando i luoghi reali vengono depauperati del loro significato e della loro “offerta formativa” è logico tentare di sostituirli con luoghi dalle caratteristiche diverse, svincolate dalla materialità. E il passato è, a rigor di logica, un luogo virtuale al pari di una comunità online sparpagliata per tutto il globo. Cercarsi e trovarsi nelle memorie significa lottare contro quelli che vengono definiti non-luoghi, contro la mancanza di genuinità e a favore della riappropriazione di qualcosa che sembra esserci stato strappato dalle mani a nostra insaputa.
E questa, come tutto ciò che ci circonda, non è altro che un’altra storia da scrivere, raccontare e vivere, al fine forse di scoprire qualcosa in più su noi stessi, ciò che desideriamo e il mondo che ci circonda.
Avrei dovuto parlare di Latte versato di Chico Buarque, ma sono partito per la tangente.
Forse, e dico forse, sarà per la prossima volta.
Photo by Austin Chan