La memoria episodica è quel delizioso magazzino del nostro cervello entro il quale sono racchiusi tutti i ricordi riguardanti la nostra vita. È uno sgabuzzino interessante che ci ricorda, se non lo avessimo già capito, che siamo fatti di storie e narrazioni.
Il passato è una specie di lungo epos classico di vinti e vincitori, di re, regine, cavalieri, politici influenti e battaglie campali. Il futuro è una proiezione probabilistica, l’insieme di tante previsioni che si articolano sulla base di quello che abbiamo già vissuto. E, più spesso di quanto si potrebbe immaginare, ci sbagliamo sul suo conto. Nel secondo dopoguerra, tanto per fare un esempio conosciuto, in molti pensavano che la civiltà del Duemila sarebbe stata completamente diversa da quella che stiamo effettivamente vivendo. C’erano città di soli grattacieli altissimi collegati da ponti sospesi nel vuoto, androidi in giro per le vie e pronti a soddisfare ogni bisogno umano al primo cenno e infine macchine volanti che sfrecciavano in un cielo costantemente plumbeo, grigio e malinconico. Sebbene queste immagini facciano parte dell’immaginario comune e abbiano influenzato tanta letteratura e tanta cinematografia, non mi risulta che il caffè questa mattina me l’abbia portato un robot umanoide, che io abbia intorno palazzi alti fino a grattare la volta celeste e che stia per prendere il mio bolide dotato di un piccolo reattore nucleare per andare a pagare le bollette. E va bene che sia così, di previsioni ne facciamo tante e ad esse intrecciamo tutto un substrato di desideri, paure, pulsioni recondite e vere e proprie follie che chissà da dove saltano fuori. E, in tutta sincerità, anche per il passato vale la stessa considerazione. Gli storici, quelli che ricercano l’obiettività e qualcosa che si avvicini all’oggettività, per quanto mi riguarda si meritano un fiorino di mancia, faccio loro i miei più sentiti complimenti. Ma è ragionevole pensare che nel tempo non sia sempre stato questo il metodo con cui gli scrittori si avvicinavano alla narrazione storica. Ce lo vedo un Ammiano Marcellino (non Sallustio e non Tacito perché questo nome mi ha fatto sempre sorridere) a infagottare e infarcire la sua opera di aneddoti e descrizioni impossibili, aggiunte per il puro gusto di dare un po’ di pepe al suo lavoro storiografico. E noi magari, lettori attentissimi del ventunesimo secolo, ci deliziamo di certe piccole curiosità che troviamo strambe, ai limiti del credibile, ma attenzione! Sono frutto della penna di un rinomato storico, guai a dubitarne. Scrivendo di Crasso che perde le insegne contro i Parti (dedico un obolo a tutti quegli studiosi di storia romana che si ritrovano a parlare di queste insegne ogni volta che aprono bocca) potrebbe aver inventato, che so, che al capo dell’esercito romano piacesse passare in rassegna le truppe con lo stile bonario e simpatico del Sergente Hartman di Full Metal Jacket, oppure che mangiava sempre un limone a spicchi prima di scendere in battaglia, così da combattere i dolori intestinali. Avrebbe potuto farlo e noi, placidamente, gli avremmo creduto. E, per l’ennesima volta, va piuttosto bene così, sappiamo che, in partenza, non è possibile fare cieco affidamento sulle fonti storiche, figurarsi su quelle elaborate da chi aveva la … penna dalla parte del manico. Sarebbe come chiedere agli storiografi repubblicani della prima età imperiale, quando la pax augustea insanguinava i confini di Roma, quanto fosse buono, magnanimo e retto il caro primum inter pares.
Storie, storie dappertutto insomma.
Storie dall’esterno e dell’esterno, magari esemplari per motivi positivi come negativi.
Storie che non si arrovellano su sé stesse arrivando a trasmettere la solita solfa esistenziale (non so quanto vada di moda di criticare questa deriva intimista della creatività contemporanea, ma personalmente, più che di deriva, parlerei di naufragio).
Sono un fautore dei concetti di epifania, momenti dell’essere e realizzazioni improvvise. Mi hanno sempre intrigato, come un nugolo di insetti che si getta sulla carta moschicida per il suo bel colore ambrato e il suo profumino gradevolissimo. Ne apprezzo le possibilità compositive, per metterla in termini pedanti, perché sono in grado di aprire dei veri e propri squarci nel tessuto narrativo al fine di mostrare al lettore dei punti di vista totalmente inediti. Un’epifania può raggiungerti quando, ad un funerale, vestito di nero e con la faccia lunga, un pagliaccio sbaglia l’uscita del casello autostradale e si fionda tutto strombettante nello spiazzo dove il feretro non è stato ancora coperto di terra. Oppure quando, camminando su un marciapiedi comunissimo, con impegni nella giornata comunissimi, il modo di indossare i tacchi di una donna ti apre la mente come un’ascia con un’arancia e ti riporta al giorno in cui la tua prima ragazza ebbe l’ardire di comprarsene un paio in tua presenza. E da questo ne consegue che … già, più o meno la formula dovrebbe essere questa. Perché i moments of being, per dirla con Woolf, non sono il fine della scena, bensì il mezzo. Le porte non sono fatte per essere osservate vita natural durante, bensì, a meno che non si tratti di un’istallazione di arte contemporanea, per essere attraversate. Checché ne dica l’Umberto Eco de Il nome della rosa nella sua estenuante descrizione del portone del monastero, le soglie sono state pensate per essere superate. Si possono contemplare, certamente, ma per un lasso di tempo che non provochi alle ginocchia un collasso dovuto all’accumulazione di litri di latte. Ecco, questi momenti privilegiati, questi istanti di subitanea sospensione, sono dei varchi, dei portali, delle stramaledette porte dotate di campanacci, batacchi e citofoni. Sostare indefinitamente sulla soglia è un po’ come portare un amico a cena e lasciarlo all’ingresso, indicandogli le portate e descrivendogliene il gusto, l’aroma e la raffinatezza. Se avete amici in grado di resistere a questa tortura trattateli come meritano, confezionategli una statua di cristallo alta quanto la Torre di Pisa. E, ricordate, sono pur sempre amici. Non riservate le stesse prove ai lettori, sconosciuti che vorrebbero staccare per un po’ la spina, magari anche impegnarsi in un’esperienza costruttiva, ma che di tentennamenti e attese e saghe mentali ne hanno già le … decorazioni di Natale piene.
Per questa china si giunge all’imperante autobiografismo dei nostri giorni. Al dibattito tra fiction, non fiction e autofiction. Alla tendenza (mania ossessiva) di chi inserisce stralci della propria vita in ogni dove conferendo loro un valore esemplare e quasi mistico. Siamo alle porte della costruzione di un nuovo modello, l’agiografia dei palloni gonfiati, che ti mostrano come scoprire il senso della vita, dell’universo e tutto quanto grazie alla piantina cresciuta dentro il loro appartamento.
E sapete una cosa? Ahimè, spesso rientro nella loro schiera, ma, giurin giurello, non lo faccio volontariamente!
È che leggere il futuro nelle bustine del tè a volte ha fascino …
L’epifania è bella, ma non ci vivrei, in sostanza è questo.
Photo by tommy bachman