Siamo ancora io e te, mio dolce specchio

Ho voglia di tracciare un bilancio. Non so se sia una pratica comune, se le persone si mettano sedute davanti ad un tavolino, la tisana calda alla destra, il blocchetto di appunti alla sinistra, con l’intenzione di autovalutare il proprio percorso. Io, il mio Io vero, ahimè, che ogni tanto dovrò pur cacciarlo fuori in queste pagine, lo faccio moderatamente, senza esagerare.

È raro che io mi ponga degli obiettivi irraggiungibili, quindi in un certo senso deludere le aspettative è al contempo molto complesso e davvero poco stimolante. Forse ciò avviene perché, in realtà, sono piuttosto ambizioso. Mi capita di non prendermela per i singoli eventi, per le più cogenti situazioni, perché tanto posso diluirle facilmente nel grande calderone dell’andamento generale. Del tipo: è vero che non sono riuscito a cucinare ogni giorno un piatto diverso come mi ero ripromesso più e più volte; eppure, sebbene non metodicamente, ho sperimentato varie portate migliorando le mie abilità in cucina. Ecco, io mi approccio in questa maniera alla scrittura, sia creativa che accademica. Un determinato articoletto, una certa poesia oppure un qualche scritto semi-saggistico sull’importanza del rabarbaro nella dieta mediterranea che non ottengono quello che reputo essere il meritato riconoscimento non mi atterriscono, nella misura in cui, come dire, ho scritto e avendo scritto ho presumibilmente migliorato le mie capacità.
A cosa dovete la pena di questo cappello introduttivo sornione? Al fatto che esattamente un anno fa, precisamente l’11 dicembre 2021, è iniziata questa avventura che nel corso dei mesi ha addirittura cambiato nome. Addio “Trincea Gentile”, è stato un piacere navigare sul tuo legno, ma è giunto il tempo di un più egocentrico cambio di rotta e di imbarcazione. Quindi, Aureliano Tempera. Questo pseudonimo che ormai mi porto avanti dai tempi del terzo anno delle superiori. Incredibile ma vero, avevo dei pessimi gusti già al tempo!

Io, ma credo si sia capito diffusamente in questo anno lungo e travagliato, sono pessimo quando si tratta di adottare una precisa strategia comunicativa al fine di ottenere più visibilità, successo e notorietà. Il mio sense of humour letterario è alquanto discutibile, sebbene io sia fan di me stesso in questo, ed è altrettanto vero che spesso è stato definito eccessivamente sottile. Che altro non sarebbe che un modo gentile per sottoscrivere la sua mancanza di un qualsiasi spigolo in grado di raggiungere il lettore e, santiddio, di farlo anche un po’ sorridere. Non parlo di uno di quei sorrisi tutto-denti, di quelli che poi erompono in una fragorosa risata. Bensì in una di quelle smorfie modeste e riservate spesso causate, più che dall’ironia e dal comico in senso stretto, dall’umorismo. Ebbene sì, sulla scia di tanti (in realtà pochi) autori del passato, mi piace inscrivermi nella categoria di coloro che tentano di scalfire la frigida armatura della serietà con lo scalpello del sorriso meditato, del sentimento del contrario di pirandelliana memoria. Quindi, il mio sense of humour è lacking di spirito (forestierismi di tutto il mondo, unitevi!) e di certo non è supportato da uno stile discorsivo e piano. Con questo non voglio dire che sia chissà quanto elaborato, aulico e letterario. Significa solo che ce la metto tutta per non piacere (ammicc ammicc) e per rimanere nel mio anonimato da strapazzo. Più spesso di quanto possiate immaginare mi è stato detto “bello oh, ma più semplice no?” ed io, stolto giullare di quartiere, cosa posso rispondere a cotanta arguzia? La risposta seria sarebbe pressappoco questa: “caro intenditore di belle parole, non mi diverto ad essere, a tua detta, complesso per chissà quale vanteria da ermetico provetto, bensì perché reputo importante creare un connubio fruttuoso tra la forma e il contenuto, tra la langue e la parole, per usare le splendide categorie coniate da quel francese non troppo detestabile che era Ferdinand De Saussure”. Antipatico, nevvero? Certo che lo è! Quel periodo trasuda la boria di chi ha avuto la sfortuna di incappare in un’aula universitaria! Ma, parola di scout, io “me la tiro” quanto un ronzino stanco, affamato e decisamente scemo potrebbe trascinare un carro pieno di smartphone nella città successiva.
Okay, il senso dell’umorismo manca, lo stile è ostico, il prossimo passo è quello di decostruire la mia volontà di non tradire ciò che voglio comunicare. Sebbene mi sia stato suggerito a più riprese di spiccare il volo con dei contenuti discutibili, come importunare i social con frasi spiegazzate sull’amore oppure dedicarmi alla penosa stesura di un romanzo rosa, magari con l’obiettivo di riportare in vita quel dolce fiore che fu la collana Harmony, io non ne sono in grado. Non per manifesta superiorità, che di superiore ho solo l’altezza nella vita reale e manco così tanto, ma per il fatto nudo e crudo secondo il quale non sarei in grado di imbastire una trama romantica nemmeno dopo la visione continuata, a mo’ di maratona, di tutti i film tratti dai libri di Nicholas Sparks. Tanto meno sarei in grado di uscirmene con frasi sapienti e sagge sull’amore, di quel sapiente gusto Osho che tanto apprezzano i nostri palati, che irradiano genialità a chilometri e chilometri di distanza come la luce di una stella del firmamento pericolosamente vicina. Se voglio discorrere di un ragazzo che incontra una mantide religiosa e ci chiacchiera di una battaglia combattuta nel cuore della foresta Amazzonica, lo faccio. Se voglio raccontare di un acrobata che non è mai salito sopra un grattacielo, di un Primo Levi alternativo che, al posto di scrivere Se questo è un uomo, si fosse concentrato sulle interviste bizzarre agli animali o ai racconti fantastici e surreali, lo faccio. E, in questo caso, mi do una pacca sulle spalle da solo, è ovvio che in qualche modo io debba pur confortare cotanta follia dalla f minuscola.
Forse, mi viene in mente un ultimo grave difetto del mio modo di fare (sono una talpa quando si tratta di elencare i difetti delle cose, un Bob l’Aggiustatutto delle storture irrisolvibili). Il fatto di essere dannatamente sincero quando scrivo. Badate bene, gli scrittori sono bugiardi per eccellenza, sono fanfaroni, contapalle, svolazzano sugli alberi come il Cosimo del Barone Rampante e se ne fregano del fatto che forse stravolgere un evento realmente accaduto ai fini di una semplice trama da romanzo è un tantinello eccessivo ed eticamente discutibile. Se ne fregano e, mea culpa, credo abbiano anche ragione a farlo. Shame on results, ma il proposito guai a chi lo tocchi. Tutto questo per dire che, purtroppo, nelle pagine spaiate e invisibili di questo blog, mi ritrovo troppo spesso ad ammettere candidamente cose … come dire, poco utili ai fini dell’immagine che voglio costruirmi attorno. Si capisce che non sono un vincente, ogni frase lo grida con furore, quasi come quello di un tifoso alle prese con il gol della squadra avversaria. Sono una specie di Sassuolo, ogni anno sulla strada per conquistare una partecipazione europea e infine relegato a metà classifica, nel grigio dell’in-between.
Ed eccoci, cari amici e amiche e amic*, alla conclusione generale di questo piccolo stralcio autoriale che ben si potrebbe chiamare “pagina di diario”.
Squillino le trombe!
Rullino i tamburi!
Si faccia strada il diadema!
E quando la festa e il corteo saranno diventati tutt’uno, ripetete in coro, ancora e ancora … ho fallito di nuovo!
Già, gran bella constatazione, pregna di ottimismo e gaiezza.
Eppure, la verità è qui dispiegata di fronte ai vostri occhi. Sebbene sarebbe meglio dire di fronte alle vostre spalle, perché, come al solito, questa mia bottiglia non vi giungerà. E pensare che il messaggio l’avevo inserito al suo interno con tanta cura!
Hasta luego compadres e ancora tanti di questi anni infruttuosi.

Photo by Gift Habeshaw

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