Ay Rosalita que dolor

Nella lunga lista di ciò che destinerei al cestino nella vita quotidiana c’è un elemento che fa spesso, comprensibilmente, molto discutere. Questo oggetto dalla forma vagamente orripilante, dai contorni levigati e pericolosi, tanto che tagliarcisi il mignolino è più facile di riporlo su una qualsiasi credenza senza generare danni collaterali, ecco, questo ammasso di negatività conturbante, questa sorta di perversione che respinge per quanto attira a sé … è il dolore. Già, proprio lui, il caro vecchio dolore, l’amico di tutti, lo sposo di maschi e femmine, grandi e piccini.

Ma cosa intendo per “cestinare il dolore”? Ovviamente non la semplice azione di prendere questo sgorbio per la collottola e di lanciarlo verso la stratosfera con un guantone da baseball. E nemmeno di lasciarlo a marcire in un angolo della stanza, buio, polveroso e con un principio di muffa dal colore lovecraftiano, permettendogli di proliferare come le radici di una pianta di fagioli. Cestinare il dolore, a conti fatti, non significa niente. Perdonate questa ammissione di colpa, ma ogni tanto è d’uopo farne almeno una per tenersi con i piedi per terra. Ma non significa nulla nella misura in cui la si può considerare un’espressione esagerata, iperbolica e barocca quel tanto che basta per attirare l’attenzione di un algoritmo sonnacchioso. Il concetto che c’è dietro è presto detto. Il dolore, secondo me, andrebbe fortemente ridimensionato nella nostra scala collettiva dei valori. Io non so se sono piovuto sul pianeta Terra da una stella popolata da buffoni di corte, pagliacci e storpi che giocano con le scimmiette, ma, così, a naso, su due piedi, direi che la sofferenza non è un granché come passatempo. E per sofferenza intendo il crogiolarcisi dentro come un maiale grufolante, l’abbandonarsi all’autocommiserazione come se si stesse scrivendo un tema scolastico non molto brillante e il fare sfoggio di un vittimismo manierato che pare strappato a forza dalle telenovelas spagnole, argentine, messicane e compagnia cantanti. Il melodramma è interessante, lo riconosco, ha quel je ne sais quoi tragico che si stempera nel riso e nel ridicolo che è una piccola delizia per tutti i palati, i più fini come i più rozzi. Ciò detto, il dolore rimane un campanello d’allarme e uno strumento che il nostro corpo possiede per indirizzarci sulla via della salute. È un mezzo, non un fine, per essere chiari e falsamente machiavelliani. Quando mettiamo un indice, ad esempio, troppo vicino alle lingue di fuoco del camino, la sofferenza fisica che patiamo serve per ricordare al nostro cervello che forse, e dico forse, non è proprio un’idea geniale quella di arrostirsi, benché si abbia freddo. Oppure, sempre discorrendo di una casistica realistica, quando si mangia troppo velocemente una granita è normale che le meningi diano l’idea di essere diventate delle mongolfiere pronte a detonare nel cielo limpido di una giornata estiva. Io voglio credere che, in casi simili e in tanti altri, l’esperienza la faccia da padrona e che, insomma, si impari la lezione. Tutto ciò apparirà banale, me ne rendo conto, ma perché poi questo procedimento semplice e lineare si volatilizza nel momento in cui va applicato a occasioni diverse della vita di tutti i giorni?
Quando ci si prende troppo sul serio e quando si eleva il tragico, o il sublime, ad unica valvola di sfogo emotiva, i risultati non potranno che essere disastrosi.
Immaginate di essere presenti durante lo svolgimento di una scena di questo tipo. Siete ad una festa in maschera, la musica è decente e la compagnia anche. Il buffet è dozzinale, ma del resto avete pagato poco per il biglietto d’ingresso. Un cameriere, vestito, che so, da Grande Puffo, porge ai vostri vicini una coppa di vino rosso o qualche altra diavoleria più raffinata da american teen party. Quando state per ordinarne uno anche per voi e la vostra adorabile consorte succede che il primo calice si rovescia addosso al vostro vicino, nonché amico di vecchia data, travestito da … Orso Yoghi. Quale sarebbe il vostro primo pensiero? Ridereste dell’accaduto con il vostro amico? Vi lamentereste dell’errore barbino di quel cameriere che … un attimo! È lo stesso giovanotto che una volta ha sbagliato a darvi il resto dal benzinaio! Ve ne andreste, scocciati e nervosi, perché quello spiacevole episodio vi ha rovinato il mood? Oppure vi gettereste nella fontana di cioccolato pur di attirare l’attenzione e di salvare il vostro vicino da un diabolico quarto d’ora di “strofina, maledizione, strofina”? Per i più imbronciati di voi, sì, questo esempio è tremendo. Sciocco, idiota, infantile. Ma, ed ecco il plotwist, il punto è proprio questo.

Il dolore ha la capacità di offuscare la vista, anzi, è meglio dire che ha il potere di mutare il modo in cui osserviamo la realtà. Lo stesso discorso vale per la gioia, la noia, la vergogna e chi più ne ha, più ne metta. Queste sensazioni, che in certi casi collimano pericolosamente con le emozioni, sono delle lenti che mettiamo senza avvedercene. E quale è lo scopo delle lenti? Di evidenziare quel che abbiamo davanti, rendendolo più nitido e visibile. Ora, seguite il mio ennesimo esempio da burlone, se si indossano gli occhiali della sofferenza, cosa si sarà portati a vedere? Cosa sottolineeranno dell’ambiante che ci circonda? Il vino sul costume, l’espressione affranta della moglie che dovrà lavarlo perché sa che il marito non sa fare la lavatrice benché glielo abbia spiegato almeno tre volte al giorno e, infine, la lavata di capo che quel ragazzino riceverà dal superiore per essere inciampato nello strascico di un costume da Raperonzolo.
Circondatevi di persone che parlano costantemente dei propri problemi ed otterrete un bel paio di occhiali da sole, di quelli con le lenti graduate col fine di non farvi vedere più un accidente. Ciò non significa che bisogna schivare il dolore degli altri, o il proprio dolore, come fosse una raffica micidiale di pallottole, bensì di imparare a dosarlo, senza elevarlo a paradigma conoscitivo della vita intera.
Non c’è spazio per sfatare tutti i miti legati all’immagine vincente della sofferenza, che oggigiorno vale quanto l’oro del Klondike, ma qualche parolina in merito penso di poterla ancora spendere.
Addolorato non vuol dire più profondo e, pronti allo choc, più profondo non significa necessariamente migliore.
Essere legati da un trauma non rende la relazioni più stabili e potenzialmente durature, in virtù di chissà quale proprietà magica del dolore.
Soffrire non conferisce lo ius maximus sulla vita degli altri. Che tradotto sarebbe “non fare agli altri ciò che non vorresti aver subito in passato” e “dopo tre ore di conversazione sulla serie infiocchettata di tragedie infantili, per favore, dimmi anche qualcosa di divertente, o di leggero, o di slegato dai massimi sistemi dell’universo”.
Ultima cosa, se potete evitare di soffrire, fatelo.
Et voilà, l’acqua calda è stata scoperta di nuovo.

Photo by Chris Charles

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