Bello fuggire con un romanzo in mano

Il conforto che può dare una pagina scritta è difficile da trasmettere a qualcuno che non ama la lettura. O meglio, a qualcuno che non può essere definito un “lettore forte”, che solitamente non si arrischia nelle librerie per paura che la carta lo tagli, che i volumi gli piombino sui piedi, in testa, sulle spalle e che un commesso dalla faccia annoiata gli indichi uno scaffale di cui non sa pronunciare nemmeno l’etichetta. Non che apprezzare questi dettagli renda una persona migliore, beninteso, ma, d’altro canto, le permette di accedere alle gioie iniziatiche di uno dei passatempi più antichi della storia.

Ogniqualvolta mi ritrovo innanzi a frasi fatte del tipo “passavo pomeriggi interi a leggere, scovando nelle storie un rifugio” sono solito immaginare qualche arguta facezia che non esprimo ad alta voce, per paura di suonare cinico e caustico. Già, pur amando io la letteratura, la lettura, i libri come oggetti in sé, fatico alle volte a mettermi nei panni di qualcuno che pur dovrebbe essere tanto in sintonia con il mio modo di trascorrere il tempo. Fortunatamente, in casi come questo, interviene la galante Esperienza a prendermi per le orecchie, gettandomi senza troppi complimenti sulla retta via. Che dir se ne voglia, c’è un limite palese a quel che si può solo immaginare. Spesso, per comprendere davvero un sentimento, un’emozione, anche solo una particolare predilezione, bisogna calarcisi con il corpo e non solo con la mente. Ed è per questo che reputo intelligente occuparsi e trattare di quel che si conosce, anche durante la stesura di una storia, così da riuscire a comunicare al meglio quello che si vuole esprimere. Ciò non significa che dobbiamo diventare tutti empiristi da strapazzo e rifiutare ogni tipo di conoscenza che non sia stata prima scandagliata attraverso il rigorosissimo metodo scientifico, significa, altresì, di redigere una dichiarazione d’umiltà. Sì, in teoria si può scrivere qualunque tipo di romanzo, racconto, panegirico, poesia, saggio e via discorrendo, ma questo intento deve poi confrontarsi con la pratica. Se Mariolino, audace adolescente di quindici anni, volesse scrivere un poema epico sullo scontro tra il Bene e il Male potrebbe incontrare qualche difficoltà lungo il percorso, a partire dal fatto che forse non ha ancora padroneggiato nemmeno le regole basilari dell’interpunzione. Ovviamente, sempre rispettando la dichiarazione d’umiltà sopracitata, qualora Mariolino fosse un genio neanche troppo in fasce e già capace di elaborare una simile opera … tanto di cappello, ce ne dovremmo solo rallegrare. Ma ecco, la retorica del “vai figlio mio che tanto farai strada” non mi ha mai convinto e, sebbene sia vero che chiunque di voi può nascondere una genialità, un talento di qualche tipo, ecco ancora, considerate anche la possibilità di essere degli individui normali, mediocri, senza infamia e senza lode, come praticamente la schiacciante maggioranza del genere umano. Non c’è niente di male in questo. In quel gruppo ci sono anch’io, il dottore, l’avvocato, l’inserviente e il vostro gatto.
L’esperienza, quindi, è quel trampolino di lancio che ci proietta dove prima arrivavamo, se ci arrivavamo, solo col pensiero. E mi ha catapultato via quando, senza avvedermene, ho scoperto che la lettura mi stava effettivamente abbracciando come una coperta calda di fronte ad un tavolino di biscottini al cioccolato. Prima che potessi anche solo gridare un Alt mascolino e robusto, ero là che scorrevo le pagine un po’ per diletto e un po’ per necessita, mentre intorno a me le cose, diciamocelo, non andavano esattamente spedite su binari ben oliati. Su quelle lunghe barre di metallo, al contrario, pareva ci avessero messo del miele unito ad una particolare colla dall’origine aliena. Così, dopo anni di battute e frecciate nei confronti di quelle frasi fatte, ho dovuto ammettere il mio errore. È vero, il conforto che può regalarti una storia immersiva è difficile da articolare a parole. Ironico, no?
Sapersi astrarre al punto di dimenticare il proprio Io è importante e trovo sia una efficace tecnica meditativa. Magari non una di quelle che presuppongono una quantità d’incenso da stendere un elefante e nemmeno quelle praticate di generazione in generazione da combattenti di arti marziali, bensì un’attività facilmente praticabile e salutare per l’organismo. Quando leggiamo “io” in un romanzo, quando la prima persona singolare ci invita ad andare altrove, a vivere l’avventura di un altro nei panni di un personaggio fittizio, in qualche modo diamo sfogo a tutta una serie di preoccupazioni e di crucci che hanno la brutta abitudine di accumularsi durante la giornata. Leggere significa sospendersi, lasciarsi galleggiare in un mare lattescente e luminoso, dal quale ci divertiamo ad impersonare ora l’arcigno capitano Achab, ora il fantasmatico Ismaele, oppure l’irruento Renzo, il gatto di Soseki e la bella Remedios.
Tuttavia, si potrebbe dire che questa sospensione altro non sia che una fuga, una vera e propria evasione. No, signori miei, non sono d’accordo. Dopo meditate riflessioni posso dirvi che sono poche le ritirate che corrispondono all’idea rozzamente negativa che abbiamo di una “fuga”. Uscire da sé stessi, prendersi una pausa dalla propria vita, non significa abbandonare la postazione, cacciar fuori bandiera bianca e infine prostituirsi al nemico. Più credibilmente, significa dormire quando si ha bisogno di recuperare le forze e magari sognare qualcosa in grado di infondere una nuova vitalità, una nuova speranza. La lettura può questo e altro. Mentre con una mano ti conduce in un posto lontano, privo di conseguenze immediate e responsabilità da sopportare, con l’altra ti indica di volta in volta degli oggetti diversi, dei quadri, dei nomi, delle date e delle persone dalle quali si può sempre trarre un insegnamento. Un libro, checché se ne dica, può cambiare una vita. Magari non tutti i libri hanno questo potere, e magari la maggioranza di essi neanche si merita di averlo, ma sta di fatto che la lettura non è un passatempo ozioso ed elitario per persone addette ai lavori, bensì un modo per entrare in contatto con la viva esperienza di un altro essere umano. E se il discorso vi suona familiare per un saggio critico, per una dissertazione o per un articolo, perché dovrebbe stupirvi di ritrovare in un romanzo le tracce di un’umanità ancora tutta da scoprire?
Gli indizi sono sparsi dappertutto e nei libri vengono resi manifesti.
Certo è che, se li avete letti solo per affermare a gran voce di averli ultimati, tanto valeva farsi una passeggiata. La lettura non è consumazione, ma lenta attività metabolica. Provate a pensarci quando in una giornata vi capita di leggere duecento pagine di cui non ricordate nemmeno una riga.

Photo by Siora Photography

Una replica a “Bello fuggire con un romanzo in mano”

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