PoesiaOtto – Cartucce

Salve a tutti, sono Manfredino Corrazzetti e di mestiere faccio il poeta. Dico di “mestiere” poiché essere poeta è un po’ come timbrare il cartellino, accumulare i bollini al supermercato oppure trovare il punto preciso da colpire per far sì che ai distributori automatici non si debba più spendere una lira. Io, quando qualcosa mi colpisce, ma mi colpisce davvero eh, dico sul serio, mi appunto mentalmente la scena, la disposizione degli oggetti e, se riesco, addirittura le espressioni di ogni singola persona. Poi, con calma, seduto al mio scrittoio in mogano macchiato qua e là da qualche residuo di colla, riprendo in mano quell’ispirazione così fresca, così genuina, e la rendo arte, arte impalpabile, arte in versi, arte snocciolata attraverso figure retoriche sorprendenti come la metafora, la similitudine e la metonimia, arte dispiegata come le ali di un albatro, arte, insomma, con la a maiuscola, quella vera, sapiente, precisa, calcolata.

Zac. Ritaglio dal reale una piccola porzione di cielo. Zac. Adesso è il turno di una zolla di terra. Zac. Perché risparmiare questa coppia ultraottuagenaria in congedo dalla sua vita di stenti e debolezze? Zac. Ed ecco che dalla mia penna fluiscono infiniti pensieri di un sublime tanto alto da diventare inesprimibile. Ecco l’amore, la donna, la filosofia, la società, tutto, tutto dalla mia penna scorre sulle pagine, pagine che dovrebbero farsi libri nel momento stesso in cui passo alla successiva, libri che dovrebbero vendere, entrare in possesso di chiunque e riversarsi nelle teste forate dallo scoppio del mio genio illuminante. E, quando mi reputerò soddisfatto, quando Lui smetterà di parlare attraverso di Me, quando il vate che sono risponderà al corpo e non più all’ingegno, mi diletterò nella composizione di versi liberi, sciolti come cani randagi e come tali capaci di azzannare, dilaniare, la mediocrità ancora buia dei miei lettori riconoscenti. Per questo motivo, in un certo senso per riposare le mie facoltà elettrizzate dal Cielo, mi dedico a poesie minori, di ripiego, quotidiane, tutte in minuscolo, tutte carine e compatte, dirette come solo le ferrovie statali sanno essere. In questo modo dalla mia mente spariscono gli ideali sublimi e la materia, oh la materia, si riversa copiosa parlando di rinnovamento personale, di un nibbio che plana, di un gabbiano che scruta, di uno scoiattolo che scoiattola, di un umano che umaneggia (notato come faccia rima con vaneggia?). E sono il re indiscusso della miseria e della nobiltà, della rusticitas e della urbanitas, del sacro e del profano, del prezioso oro e del vile rame. Ma è inutile discorrere ulteriormente, il dado è tratto, alea iacta est, leggerete di me sui muri, sui dirigibili e sulla statua che, alla mia morte, verrà commissionata dal capo dello stato.

Secondo me, al contempo, in giro ci sono sia tanti che pochi poeti. Dico pochi perché coloro che vengono reputati tali mi fanno l’effetto del bicarbonato dopo un pasto e dico tanti perché, contraddittoriamente, nel grande mondo esistono delle persone che meriterebbero questo appellativo pur inconsciamente. Volendo fare un esempio un po’ caricaturale, come se il breve stralcio precedente non fosse stato abbastanza, posso affermare con certezza di non vedere alcunché di poetico nella hybris di colui che si atteggia a grande conoscitore della vita solo perché qualcuno si è ricordato di inserire qualche suo verso all’interno di una antologia prestigiosa. Sarà solo una mia deformazione umana, ma reputo la tracotanza e la superbia due qualità molto in contrasto con l’ambizione di essere definiti poeti. In realtà, ad essere sinceri, ciò è del tutto inesatto, è un mio ghiribizzo, anche perché una persona intrinsecamente cattiva potrebbe scrivere versi eccellenti e viceversa una persona intrinsecamente generosa e cordiale potrebbe scrivere versi pessimi, da voltastomaco. Alla realtà, in effetti, poco importa dell’etica e della morale, se una cosa funziona, funziona. E magari, obietterebbero i più facinorosi, l’orgoglio smodato potrebbe addirittura essere una fonte d’ispirazione valida a tal punto da generare un capolavoro senza tempo. Che la Commedia di Dante sia anche un atto di orgoglio è difficile da smentire.
Credo che il punto della questione non sia cercare di completare l’identikit del perfetto poeta, soprattutto quando le informazioni si vanno a ricercare nel suo comportamento e in certi eventi strumentalizzati della sua biografia. Il perfetto poeta, ovviamente una figura mitologica inesistente e irraggiungibile, è semplicemente colui che scrive delle ottime poesie. Non ci interessa che si reputi un indovino, uno sciamano, oppure un broker di successo, che con i suoi versi abbia comprato una Bugatti oppure che viva sotto i ponti, ciò che davvero dovremmo considerare sono i suoi lavori, quel mix di forma e contenuto che malauguratamente definiamo poesia.
Cos’è quindi un’ottima poesia? A dirla tutta si potrebbero tirar fuori dal cilindro tante di quelle definizioni da annoiare anche Plinio il Vecchio. Alcuni darebbero la palma alla struttura formale, altri alla ricchezza lessicale, altri ancora all’immediatezza dei contenuti e alla sconcertante vividezza dei temi trattati. In sostanza, ogni poesia non è che l’insieme di varie strutture che interagiscono tra loro, qualunque sia l’importanza che gli si conferisce. E c’è di più, se parlassimo in termini tecnici, scartabellando manuali di metrica e di storia letteraria, ci renderemmo conto che questo è un dibattito aperto da sempre e che mai verrà chiuso. Per questo motivo, dal basso della mia ignoranza e dalla modestia che mi porta a dire che non ho la capacità per arricchire questa storica questione, mi limito ad affermare una cosa piuttosto banale e dozzinale.
Un’ottima poesia è una poesia che ti lascia qualcosa.
Un qualcosa che ti lavora dentro subito dopo averla terminata, che ti lascia interdetto per qualche istante, che ti colpisce con la forza di uno schiaffo improvviso e inaspettato. Un’ottima poesia non passa in sordina, non può essere ignorata tanto facilmente. Dopo averla letta, probabilmente, ti rimane in testa a lungo prima di svaporare nella nebbia del chi si è visto si è visto. Scava, brucia addirittura. Oppure ti riporta con la mente ad un ricordo d’infanzia, all’odore di cotognata e al sapore d’incenso. Ti ghermisce, dannazione, ti avvinghia con forza, che sia benevola o malevola. Ti influenza, spaccandoti il cranio a metà, dolcemente o con violenza. Non ti può lasciare freddo e inerte. Non ti può far scrollare le spalle consigliandoti di leggere quella successiva. Un’ottima poesia parla all’umanità tutta, per quanto specifico possa essere il suo tema. Un’ottima poesia sopravvive alla periodizzazione storica, all’età classica, al medioevo, all’umanesimo e via dicendo. Le altre, quei versi che non hanno certo meno dignità, ma sicuramente meno valore, rimangono nel cantuccio, in quello spazio occupato da mobili solidi benché non siano né stupendi né indispensabili.
E di queste ottime poesie, a mio avviso, nella vita se ne possono scrivere poche. Le eccezioni sono contemplate e ben accette, anzi, plaudo alla loro esistenza. Ma, tornando sul pianeta Terra, di noi persone comuni, il discorso regge. Di cartucce ne abbiamo poche e vanno usate saggiamente. Oppure vanno ignorate, lasciando che l’ispirazione scorra come una falda acquifera sotterranea. È bello essere ambiziosi e pensare di essere in grado di imbrigliare il reale nei propri versi. È bello sentirsi poeti. Eppure, questo significa che non tutti possiamo esseri i migliori, coloro che raggiungono questa altezza, quelli che ce la fanno. E va bene così.
Un’ottima poesia è un tesoro rarissimo, una vera e propria miniera d’oro. Tutto il resto, quello che non riesce ad avere un impatto analogo, fa solo da sfondo ad una giornata, una giornata che facilmente verrà dimenticata. L’ottima poesia pare scritta per essere incisa sul marmo, le altre non sono che le pagine di diario di anime riflessive e sensibili. Ma non tutte le anime sanno illuminare come il sole.

Photo by Cody Wingfield

15 risposte a “PoesiaOtto – Cartucce”

  1. Rispetto a quello che tu dici, e cioè che la poesia vera ti lascia qualcosa, è una riflessione che condivido ed è vista dalla prospettiva di un lettore di poesie. Se invece analizziamo la cosa dalla prospettiva di chi scrive poesie, almeno di mio posso dire che sento di aver scritto una buona poesia quando sento che ha rivelato a me stessa qualcosa fino ad un momento prima non ero riuscita a vedere bene dentro me. La poesia in questo senso è rivelatrice, togliendo ogni velo e lasciandoci nudi. Ovviamente, ciò accade quando essa sorge spontanea e non è una mera costruzione…

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    • In realtà sono d’accordo e non vorrei passasse l’idea che reputi la poesia una faccenda elitaria. Credo solo sia molto sano accettare il fatto che possa avere valore anche solo per il singolo, per colui o colei che l’ha scritta. In un certo senso non è importante che una poesia diventi una “grande” poesia proprio perché è in primo luogo uno specchio dell’anima. Se invece fosse anche “grande”, be’, non potrei che esserne contento!

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  2. Credo che non esista un’ottima poesia, perché se coglie l’attimo in cui l’emozione nasce , fotografa il Big Bang nel momento esatto del suo iniziale divenire, cattura solo quello e lascia al lettore tutte le fantasie che possono generarsi.
    Da giovane ho sperato di scrivere la “poesia perfetta”, ma ho capito che non può e non deve esistere.
    Giancarlo

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    • Da parte mia posso aggiungere che, rifacendomi al buon Palazzeschi, la poesia, ma in realtà l’arte tout court, è una menzogna. Spesso in buonafede, intendiamoci, ma pur sempre una ricostruzione a posteriori. Del resto, quando ci si appresta a scrivere qualcosa spinti dall’ispirazione, non si riesce mai a far coincidere il tempo della “follia creatrice” con quello della stesura diretta.
      Ma detto ciò, son nella schiera di quelli che apprezzano siffatte menzogne 🙂

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