Dire che un’esperienza è stata un’odissea significa imprimere su di essa tutte le caratteristiche di un viaggio lungo, avventuroso e non sempre facile. Un viaggio segnato da scossoni e deviazioni, da incomprensioni, colpi di scena e momenti di bonaccia nei quali ricordare nostalgicamente il passato oppure grazie ai quali si può scorgere, dietro la linea dell’orizzonte, il futuro che ci attende. Ogni libro, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe essere in grado di trasmettere tutto ciò. Dovrebbe uscire dall’anonimato generale per gridare con voce di tuono “esisto e da oggi non potrai più ignorarmi”.
Ed è con questa speranza che i lettori assaltano le librerie, le bancarelle, le catene di negozi dell’usato e i vecchi scaffali nelle case delle nonne, tutto pur di dissetare quel desiderio cocente che è il bisogno di catapultarsi in una storia sconosciuta. Nel mio bizzarro curriculum figurano libri che cancellerei volentieri dalla faccia della terra, libri che rileggerei a ripetizione nonostante io ne conosca la trama a memoria e libri che, semplicemente, mi hanno lasciato qualcosa di impalpabile e prezioso, una ricompensa luminosa e sfuggente che giustifica quelle banconote colorate, ahimè, di verde, lanciate verso cassieri che smerciano volumi come cioccolatini sotto San Valentino. L’odissea di oggi, benché vecchia di almeno un secolo e mezzo, è Il Conte di Montecristo.
Dove cominciare quando si ha di fronte uno dei capolavori della letteratura mondiale? Dall’inizio? No, troppo scontato. Dalla fine? Macché, che villania. In medias res? Nemmeno, sarebbe come entrare nella sala di un cinema durante l’intervallo dopo aver perso la prima metà del film. Quindi mi piacerebbe affrontare quest’opera mastodontica a casaccio, senza seguire un filo conduttore riconoscibile e blaterando impressioni come si fa quando in corpo si hanno due bicchierini di troppo.
Vorrei incominciare da un aspetto stilistico che mi ha particolarmente colpito: l’elegante esattezza del pensiero. Ebbene, i personaggi di questo romanzo oceanico hanno la mirabile capacità di non dire niente e di dire tutto al contempo. I lettori, lungi dal vedere soddisfatte le proprie ansie da drogati di serotonina quali siamo diventati, devono aspettare migliaia di pagine prima di vedere scritte, vergate nero su bianco, le affermazioni nelle quali vorrebbero voltolarsi come tortellini in brodo. La reticenza degli aristocratici è tale da nascondere dietro frasi studiate ed equilibrate quel che essi pensano davvero, mentre l’esperto conversare dei membri del popolo non è meno sibillino e attento. Tutti i personaggi chiamati in causa, anche quelli che esauriscono il proprio compito in poche righe, hanno una personalità talmente riconoscibile a vista d’occhio che ogni sillaba diviene credibile, ogni ostentazione modesta. In tutto ciò, ad arricchire questo meccanismo che ha il compito di accompagnare gradualmente il lettore verso la scoperta della verità, la semplicità dell’intreccio e la chiarezza d’intenti dei personaggi principali accompagnano l’attenzione e la fantasia senza tener conto del tempo che passa. I capitoli, spesso lunghi e non sempre dritti al punto, ammonticchiano l’uno sull’altro i mattoni di una costruzione che, una volta completata, genera uno stupore senza precedenti. Ci sono alcune frasi, talvolta interi periodi, che verso il finale fanno venire la pelle d’oca. Non tanto per la loro bellezza, più per il denso significato che hanno acquisito lungo tutto il corso della narrazione. Il fatto che il romanzo appaia a tratti pressoché interminabile gli conferisce la facoltà di costruire con parsimonia, passo dopo passo, l’ordigno che infine esploderà mandando tutto in pezzi. Ogni incontro, ogni conversazione che avviene tra i personaggi è come la lenta azione di un tale che gonfia un palloncino con una pompa manuale. L’unica differenza è che nel Conte il palloncino diventa grande quanto un dirigibile pur rimanendo delicato e pronto ad essere scoppiato per la puntura di uno spillo.
In generale, è facile dire che tutto è già stato scritto, che non esiste niente di nuovo da inventare e che, come al solito, nulla di nuovo giunge dal fronte occidentale. È un argomento semplice da sostenere perché basta appellarsi alla letteratura greca per dimostrare come quasi l’interezza delle storie pensate e scritte successivamente sia, di fatto, una rielaborazione degli archetipi stigmatizzati da quel popolo di brillanti scansafatiche (si fa per ridere, non stracciate i vostri bei dizionari). In Montecristo, finalmente, ho trovato di nuovo la messa in discussione di questi suddetti archetipi. Il Conte è un personaggio magnetico, carismatico e ineluttabile. È determinato e capace di muoversi sulla scacchiere della Provvidenza divina. Lui, come gli viene spesso ripetuto, non appare come un uomo, un mero mortale, bensì come un dio, una divinità purgata dalle bassezze del dubbio e innalzata alla gloria della certezza infallibile del Creatore. È un Papa laico, imperturbabile della sua splendida turbolenza interiore, ed è soprattutto in grado di contestare i valori con la v maiuscola, dalla bontà e la carità all’orgoglio e all’onore, pur di compiere la sua missione in quanto angelo vendicatore. Le sua bussola è la Giustizia, quella terribile del Dio dell’antico testamento e non quella lacrimevole del Dio del nuovo, e il suo compito è ristabilire la bilancia del Karma cosmico (per quanto ciò esca di gran carriera dalla filosofia cristiana). Il Bene e il Male, sebbene siamo lontani da distinzioni di carattere manicheo, sono ben rappresentati e idolatrati e perpetrati dalle figure tonde che abitano le pagine del romanzo. L’inettitudine tardo-ottocentesca e soprattutto novecentesca, quella linea che già da Dostoevskij passava per Kafka, Svevo e Musil per tuffarsi nel postmodernismo, non ha ancora messo le sue radici nella produzione culturale dell’Occidente ed è sinceramente ammaliante, accattivante e liberatorio leggere una storia solida e ricca di implicazioni e analisi profonde che non si basi sulla manipolazione linguistica e sulle turbe psicologiche di protagonisti incapaci di scindere la realtà dalla (morbosa) fantasia.
Ogni passo del Conte è un passo che rimane ben calcato nel terreno. I suoi movimenti sono quelli del gigante in mezzo ai bambini e i suoi pensieri sono accurati e rigorosi a tal punto che nemmeno le numerose identità fittizie, nemmeno il velo ipocrita di cui deve ammantare la sua persona in società, sono in grado di offuscarli. Ora, come ogni personaggio complesso che si rispetti, non è esente da ombre, cicatrici, idiosincrasie e dubbi, del resto, diciamocelo, quale sarebbe il divertimento di osservare da spettatori un tale invincibile che sgomina chiunque si ponga sulla sua strada?
Mi rendo conto che non basterebbero i volumi della Biblioteca di Alessandria per rendere merito a questo romanzo, ma, forse per il momento, accontentiamoci di questo.
Quindi, a te che stai leggendo, do il consiglio terribile del Conte in uno dei momenti più alti del romanzo: “porta pazienza”.
Photo by Tyler Milligan
12 risposte a “Porta pazienza”
Pensa che l’ho letto due volte.
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Dire che sei coraggioso è dir poco, anzi, pochissimo. Ma credo proprio ne valga la pena. Tu che ne dici?
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A dirla tutta, mi piacerebbe rileggerlo, l’ho in lista.
Il Conte è un personaggio bellissimo, tutta la sua vicenda, la vendetta. Poi l’abate Faria…
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L’abate Faria avrà sempre un posto nel mio cuore. Ci sono prigioni che nonostante la durezza non sono in grado di spegnere un uomo brillante come lui, in tutti i sensi
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Ecco un altro personaggio fondamentale.
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buona serata
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Anche a te!
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🙂
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È quello che faccio da sempre.
Dicono che la pazienza sia la virtù dei forti.
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Buona disamina.
Ritengo che Dumas abbia semplicemente ed accuratamente rilevato il modo di esprimersi di un’ epoca di restaurazione, dove ogni parola doveva avere senso solo per chi la pronunciava nella propria cerchia ristretta, un periodo di crisi della società, in cui vi era la pretesa per pochi, di tornare ad un regime ormai desueto ed in via di estinzione.
In questo ambiente si muove un inusitato personaggio che per destino vive una second life, pur nella menzogna ristabilisce un equilibrio per se stesso e tutti i personaggi.
La trama è avvincente, proprio perché arricchita di situazioni, personaggi ed avventure estemporanee, nonostante l’evolversi fosse scontato, come qualsiasi altro romanzo in qui il protagonista “risorge” e torna ricco, spietato e vendicativo.
comunque complimenti per l’analisi formale del testo.
Giancarlo
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Fa sempre molto piacere interfacciarsi con qualcuno che ha letto Il Conte di Montecristo. Sono d’accordo con quel che scrivi a riguardo della messa in scena di una società complessa, in preda al cambiamento e scissa in due cuori, l’uno aristocratico-autoritario, l’altro popolare. In quelle pagine non solo si respira la storia, ma anche quella tensione tipica della narrativa ottocentesca che ancora non è stata eguagliata dai grandi thriller, noir o gialli dei nostri giorni. Che dire, spesso la schiettezza e la concisione sono più salutari di tante pagine arzigogolate.
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Mi scuso per il qui anziché cui, a volte le correzioni automatiche sono un danno, si può dire un qui pro cui…
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