Peti filosofici

In fondo alla via c’era una casa. Di quelle che i grandi scrittori avrebbero definito fatiscenti. Le tegole in procinto di cadere, la porta fuori dai cardini e le finestre che davano l’impressione di frangersi da un momento all’altro. Dall’interno giungevano le voci di un uomo, una donna e almeno tre ragazzini scalmanati.

E fuori, sul vialetto che a sentirsi definito così sarebbe arrossito, una bambina rattoppava una bambola, una donna spazzava l’ingresso lordo di fango e un uomo dalle spalle larghe trascinava con sé due sacchi grandi quanto la luna. L’attività della bambina, quel lento cuci e ricama, veniva propiziato dall’unica luce artificiale nel raggio di trecento metri. Splendendo sulla finestra impolverata alle sue spalle, si irradiava balzando in ogni direzione ma smorzandosi presto, tanto che, l’uomo intento a scrivere una lettera al lume di candela, non si accorgeva nemmeno del piccolo favore che faceva alla bambina. La donna, ramazza in mano, fianchi larghi e un fazzoletto arrotolato sulla testa, ondeggia per noia, non per necessità. Le piace il suono delle pagliuzze intrecciate, le piace soprattutto godere di quel crepuscolo che lento trascina con sé il sole oltre l’orizzonte. In casa, nelle sue quattro mura prese in affitto da un’anziana donna, che riscuoteva l’affitto direttamente dall’ospizio, non la attendeva niente e nessuno. Una pentola bruciacchiata sul fondo, una sedia con una gamba più corta delle altre e un giaciglio che di letto non aveva che la mera funzione. Forse, nella dispensa c’era per lei un pugno di riso, forse, una manciata di pasta da misurare con quello strumento bizzarro e divertente che era lo spaghettometro.
In fondo alla via c’era una casa. Popolata da una di quelle famiglie che, oggigiorno, i giornali avrebbero definito problematiche. Se la penna dell’articolista si fosse sentita particolarmente audace, addirittura disfunzionali. L’uomo al suo interno stava gridando. Una ciotola si era rotta, il contenuto si era riversato a terra e qualcuno doveva pagare. Una voce tenue e delicata gli faceva presente che, era difficile distinguere questo flebile tono coperto da una parete di legno marcio, era stato proprio lui a lasciarsela sfuggire di mano. Papà, gridava qualcuno, in procinto di essere colpito. Mamma, ululava quello che sapeva di essere il prossimo nella lista.
In fondo alla via c’era una casa. Tutti la ignoravano, tutti la compativano. Anzi, sarebbe meglio dire che tutti avevano ben presente quel che succedeva all’interno delle sue quattro pareti domestiche. Lo sapevano perché, semplicemente, quello che accadeva lì accadeva anche altrove. Quindi la donna spazzava l’ingresso, temendo di dover rientrare in casa. La bambina stringeva gli occhi, sapendo di doversi sbrigare che la luce stava per spegnersi. E l’uomo dai grandi sacchi sulle spalle, robusto toro, era ancora fermo al suo posto, a contemplare la fatica, la soddisfazione di sentire il proprio sangue guizzare in tutto il corpo e la cena sostanziosa che avrebbe ingollato senza pensieri.
In fondo alla via c’era una casa. O, per meglio dire, nella via c’erano molte case. Avevano solo un piano, che il popolo sapeva quanto il troppo stroppiasse. E in quelle case c’erano delle persone. E in quelle persone delle storie. E in quelle storie della vita. E nella vita La Vita.
Rintoccava il suono di un gong e tutti, come svegliatisi dall’incanto, si guardavano l’un l’altro, sorridendo di un sorriso malinconico e speranzoso.

C’è questo scrittore cinese. Si chiama Yu Hua e ammetto di non conoscere la pronuncia del suo nome. Quest’uomo, finalmente un vivente tra le nostre pagine, altro che Melville o Dumas, ha uno stile essenziale e schietto. Ora, non me ne intendo di letteratura cinese, non ancora perlomeno, e non so se questa tendenza a raggiungere l’universale attraverso il particolare sia una prerogativa tutta loro. Sospendo il giudizio, come dovrebbe fare chiunque non abbia i mezzi per dirimere una faccenda assai complicata. Empiricamente, però, posso dare qualche informazione che ho toccato con mano.
Prendiamo Cronache di un venditore di sangue. La vicenda è talmente fuori dal nostro orizzonte d’attesa che capirei se qualcuno, dopo averlo letto, mi indirizzasse uno sguardo interdetto. E la sua trama è davvero singolare, tanto che non ne esistono dei corrispettivi occidentali che possano vantare lo stesso impianto. Non voglio dire che sia un capolavoro intramontabile, ma solo che racconta una storia per noi difficilmente immaginabile. Perché la nostra cultura non ci porta ad interpretare gli eventi in un certo modo, perché non abbiamo mai vissuto esperienze simili e perché, in sostanza, la fantasia cede spesso il passo alla realtà se non è supportata da una mente geniale. È capricciosetta in questo, la realtà. Non le va a genio di essere superata dall’intelletto umano e per questo architetta tutta una serie di allegri stratagemmi per ricordarci di stare al nostro posto. Pensavate di aver inventato qualcosa di sublime e inaudito? Bene, sicuramente, da qualche parte, quel pensiero era già stato pensato e quel determinato progetto messo in atto. Ve l’ho detto, è capricciosa. E poi, quando si sente minacciata, ricorre dietro la sua ultima e insormontabile difesa: non c’è ispirazione più feconda della realtà stessa. Scacco matto, piccola disgraziata, ancora una volta ce l’hai fatta sotto al naso (e a me va benissimo così).
Così, sulla via della seta, magari incontriamo anche L’eco della pioggia. È un romanzo di formazione, il protagonista è un Io narrante che ricorda la sua infanzia e la sua adolescenza e, talvolta, si arrischia a cavar fuori dal passato la trama di un nonno o di un bisnonno. Di chi sia lui nel presente della rimembranza, di quella che Yu Hua chiama “logica della memoria”, noi non ne sappiamo niente. Perlomeno è ancora vivo e sano! Il che, per chi ha letto il libro, dovrà pur suonare soddisfacente. Benché sia un bildungsroman, ogni tanto ho bisogno di ricordare a me stesso di aver fatto l’università, non è una rottura di scatole egoriferita ed egocentrica. Non dispiega le sofferenze dell’Io per dimostrare quanto il volere sia potere o altre menate simili. Non termina e non sboccia nell’adulterio o nel matrimonio, anzi, non si concretizza davvero. Come ne Il giovane Holden, il protagonista non trova sé stesso attraverso il duro lavoro, bensì compie un viaggio passivo accompagnato dalle persone che, volenti o nolenti (e più spesso nolenti), gli stanno attorno. Sun Guangling è uno spettatore poco partecipe della realtà. Ricorda, ma i suoi atti sono secondari, lo specchio della società dura e austera nella quale si è ritrovato a crescere. La vita è ingiusta e le persone, spesso e volentieri, ce ne mettono del proprio per peggiorare la situazione. E le sofferenze, le speranze, le aspirazioni e le tribolazioni del popolo (inteso come stragrande maggioranza della popolazione) finiscono nel fango generato dalla pioggia assente e impersonale di quella che altro non è se non una società indifferente. Il libro apre uno squarcio nel tessuto collettivo e da esso ne emergono gli spiriti positivi e i fantasmi malevoli di tutta una generazione, cresciuta a cavallo della Rivoluzione Culturale e del tramonto definitivo della “vecchia epoca”. Nella semplice esposizione di Yu Hua tutto ciò appare vivido e sgargiante, terribile nella sua durezza e splendido nella sua ricostruzione.
È ammirevole, mi verrebbe da concludere, riconoscere quanto in profondità si può andare, quanto sottilmente si può ragionare sull’esistenza, attraverso, e non scherzo, il peto di un burlone sensibile ai danni della faccia del protagonista.

Photo by Chastagner Thierry

2 risposte a “Peti filosofici”

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