Ho un etto e mezzo di genuinità, che faccio, lascio?

Mostrarsi apertamente per quel che si è non è una garanzia di successo. A volte, infatti, la schiettezza e la sincerità non bastano. E c’è di più, non consentono nemmeno di vivere in armonia nel proprio ambiente, non sempre perlomeno.  
Lo sa Marco, protagonista di Cortile a Cleopatra, opera ingiustamente dimenticata di Fausta Cialente.

È un ragazzo dal passato movimentato, ha vissuto con il padre viaggiando da una nazione all’altra e spostandosi di continuo tra un’abitazione e l’altra seguendo le sue tracce di vernice, quelle che, il pittore, o l’imbianchino, Alessandro, lasciava dietro di sé. Alessandro è un padre generoso e gentile con il figlio. Cerca di non metterlo in difficoltà e non proietta su di lui le proprie aspirazioni tradite. A modo suo, e questo Marco lo sa bene, è un artista, sebbene gli venga riconosciuto ben poco. Alessandro si preoccupa del futuro del suo unico discendente, sa di averlo strappato dall’affetto, piuttosto dubbio, della madre e di averlo reso un ramingo, un uomo senza patria e senza debiti di obbedienza a chicchessia. Difatti, Marco adora la vita alla giornata che conduce con il padre, ama sentire l’odore della vernice e scoprire l’interno di innumerevoli case nelle quali non potrebbe vivere nemmeno desiderandolo, brama di continuare così in eterno, sollevato dalle proprie responsabilità individuali e supportato da quel padre gagliardo, intelligente, di bell’aspetto e dal piglio così sicuro. Perché Marco, lo capisce fin dall’infanzia, non è tagliato per lavorare. Il padre, che gli vorrebbe insegnare il proprio mestiere, fatica a farglielo entrare in quella sua zucca piena di libertà e poesia e non può che sperare che al figlio bastino gli occhi e la lunga attività da osservatore per carpire i segreti dello stare al mondo. Alessandro, dal canto suo, può aiutarlo in un altro modo: fornendogli un’educazione di base e lasciandogli in eredità la sua passione per la letteratura, o sarebbe meglio dire per la lettura. Già, perché Marco non lavora, né vorrebbe farlo, eppure trascorre le sue giornate da spettatore, verrebbe da dire un amorevole parassita, diviso a metà tra la lettura e la contemplazione di piccoli dettagli puramente estetici. Se c’è il mare, quel Mar Mediterraneo attraversato in lungo e in largo, come lo si può ignorare quando gli si presenta innanzi, con quelle onde spumeggianti, il colore intenso e il fragore conciliante? E che dire del vento, che sussurra dolci pensieri, del sole, che illumina strade piene di possibilità, e della notte, il regno del piacere e della confessione? Si capirà bene che il nostro Marco è un tipetto alquanto lunatico, con la testa tra le nubi, la pragmaticità di un’ameba e la joie de vivre del libertino godereccio. Finché gli è permesso, e soprattutto concesso, di comportarsi così, accoglie ogni esperienza come un balsamo corroborante. Eppure, e diciamo anche finalmente, qualcosa interviene per turbare la sua esistenza (sennò non ci sarebbe stato romanzo, osserverebbe qualcuno). Ebbene sì, morto il padre, Marco si ritrova solo al mondo, squattrinato e con un bagaglio di libri che farebbe invidia ad una biblioteca comunale di terz’ordine. Nella testa ha coltivato e continua a nutrire fantasie da protagonista ottocentesco eppure, con una rapidità crudele (che quasi si avvicina ad una ripicca per la sua gioia precedente), la vita gli mostra l’altra faccia della medaglia. Deve fuggire, in qualche modo deve trovare la propria strada tra le milioni disponibili. Può trovare sua madre, deve trovare sua madre, e stabilirsi da qualche parte per costruirsi un’esistenza degna di questo nome. Marco parte alla ricerca di Crissanti, la donna greca che l’ha dato alla luce, e nella sua peregrinazione giunge in Egitto, precisamente nel quartiere chiamato Cleopatra. Ha fatto il mozzo per qualche mese, pur trascorrendo la maggior parte del tempo in cabina per un malanno, e ha camminato tra le aride dune del deserto, tutto, pur di raggiungere quell’appiglio che già s’era figurato amorevole e confortante. Ciononostante, come un Jack London tradito, al suo arrivo a Cleopatra scopre che il suo modo di stare al mondo non è compatibile con la laboriosità pragmatica di chi, nella vita, ha sempre dovuto rompersi la schiena.
Ebbene, questo è, per sommi capi, l’incipit del romanzo. Riuscirà Marco a diventare una persona rispettabile, in sostanza un onesto lavoratore, mantenendo al contempo la sua passione per il dolce far niente in compagnia di un libro o della natura? Sarà in grado di maturare così da assumere in sé le due parti migliori di ciò che la società si aspetta da lui? Amante attento e uomo d’onore. Pragmatico borghese e uomo d’intelletto. Persona faceta e al contempo seria. Un gioco da ragazzi, insomma. E per fugare ogni dubbio vi consiglio di tornare alla frase che apre questo testo.

Marco vive un conflitto facile da individuare per quanto difficile da risolvere.
È un ragazzo che si domanda, e chi non se lo è mai domandato, perché si trova costretto a fare cose di cui non gli importa niente. Lui, che non vuole niente da nessuno, che non chiede che di vivere di poco – un po’ di cibo, acqua e un tetto sulla testa – che è in grado di trascorrere amabilmente le sue giornate steso sotto l’ombra di un albero a dar da mangiare alla sua scimmietta, perché dovrebbe invischiarsi nel ginepraio delle maldicenze e delle aspettative altrui?
Il mistero della vita dei personaggi che vivono nel cortile a Cleopatra non è poi tanto insondabile. Per loro, se non ti impegni in qualcosa non hai alcun diritto di reclamare alcunché. Se non lavori non puoi permetterti una casa, del cibo in tavola e delle amicizie rispettabili. Se non ti dai da fare per propiziarti la simpatia dei vicini soccomberai alle loro cattiverie. Se non addestri la scimmia in modo tale da stravolgere la sua natura la sua presenza non sarà tollerata. Se non ti muovi, se non dimostri cosa sei, cosa sai fare e dove arriverai nella vita, non hai diritto alcuno di occupare il loro campo visivo, di respirare la loro aria, di atteggiarti a profondo e malinconico ragazzo sprezzante della loro fatica quotidiana.
Marco, consapevole di tutto ciò, soffre. Soffre perché la vita gli appare come un grande mercato all’interno del quale si può circolare solo se accompagnato da un borsello colmo di monete d’oro. Vuole amare una ragazza senza necessariamente impegnarsi? Ecco che gli piombano addosso gli oneri del fidanzamento, le promesse di fedeltà e l’inquadramento in un piano prestabilito in cui si sente strettissimo. Vuole trovare un’occupazione che gli richieda poco tempo e che gli consenta di vivere dignitosamente, senza eccessi, privilegi e prospettive da Mida nel futuro? Ecco che non basta, no che non basta, non basta mai nulla di quel che fa. Deve conformarsi, curvarsi, prendere la forma, come un liquido, del contenitore in cui si trova. Cosa fare quindi? Tradirsi? Fare finta che quello che si prova e quello che si pensa davvero non esistano? Ebbene no, un’alternativa c’è sempre, ed è una delle panacee migliori nei confronti delle piaghe del fallimento. Ci si rimette in viaggio. Si va altrove. Si riprende la ricerca di quel posto, non magico, non fatato, nel quale poter essere sé stessi senza il timore di venir attaccati da tutte le direzioni.

È solo un altro ciottolo nel lungo percorso che contrappone l’individualità alla collettività, la genuinità con il compromesso.

Photo by Micheal Rodock

5 risposte a “Ho un etto e mezzo di genuinità, che faccio, lascio?”

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