Per voi un racconto che ho scartato da una raccolta che sto preparando. Spero possa piacervi comunque.
Mi ha intimato con fin troppo calore di raggiungerlo e monitorare insieme le prossime mosse. Questo trillo metallico non me lo leverò dalla testa per una settimana buona. Gli allarmi non hanno altro effetto che quello di stimolare nel mio corpo le risposte sbagliate, impulsive e decisamente poco ponderate. Ho superato i corridoi labirintici della struttura scansando personale incamiciato e armato di marchingegni sofisticati misti a coltelli dalla forma longilinea e affusolata solo per ritrovarmi il grugno mefistofelico del capo della ricerca ad attendermi, seduto su una poltrona girevole. Vuole che io mi immerga nell’ultima simulazione alla quale sta lavorando da circa tre mesi. Necessita di un parere esterno per “equilibrare” la situazione, come ha appena brillantemente proferito schiccherando via il bicchiere di plastica contenente ancora un po’ di caffè. Il suo ecosistema vive una fase anomala e ha bisogno del mio occhio clinico per saperne di più. Sa bene che quando comincia ad elencare termini tecnici smetto di seguire il discorso, ma a lui non interessa, anzi, usa questo intervallo tra di noi per affermare con tendenziosa saccenteria la sua superiorità, nonostante la fretta. All’atto pratico basta essere chiari e concisi: ha bisogno di un topo da laboratorio che si fiondi all’interno del suo piccolo giardino virtuale indossando un visore per la realtà aumentata. Eppure, ama il suono prodotto dalle sue corde vocali amplificato dalla struttura asfittica dello studio. È solo una mia ipotesi, ma credo abbia sviluppato un sentimento perverso nei confronti delle ristrettezze e di conseguenza delle nicchie, degli anditi, così che ogni minuscolo pertugio è per lui fonte di una strana rivalsa personale. È per evitare che continui a stordirmi con le sue procedure di sicurezza crittografate che afferro il visore e me lo calco in testa.
Bontà divina, esclamo una volta che le informazioni si strutturano fino a costruire edifici alti e dinoccolati. Vedo il mondo prendere forma, così deve essersi sentito il demiurgo la prima volta, di fronte alla sua piccola e catastrofica creazione. In un baleno vengo investito da una quantità smodata di stimoli e sensazioni. So che mi basterebbe premere un pulsante per interrompere il viaggio, ma un lavoro è pur sempre un lavoro e di lamentele non so ancora cibarmi. Toccare terra è strano, come se ci fosse un tapis roulant fermo sotto ai miei piedi. Invece è una strada, sembra addirittura d’asfalto, grigia e tappezzata di segnaletiche che non comprendo. Intorno a me ci sono delle creature a dir poco bizzarre e il traffico è tale da farmi rimpiangere gli ingorghi del centro città durante una mattinata estiva. A guardare meglio le fattezze di questi esseri mi accorgo della loro natura antropomorfa. Sono esseri umani in miniatura, sgorbi usciti dalla matita fallibile di un bambino dell’asilo. Sono organizzati in gruppi tanto che risulta piuttosto facile distinguerli gli uni dagli altri. Hanno vestiti adatti alla loro taglia così come gli utensili, gli accessori e i ninnoli che gli vedo addosso. Da un lato, sotto alcuni alberi giocattolo, ci sono degli spazi vuoti nei quali la folla non si spinge. È come se questi vuoti avessero un centro di gravità negativa da evitare a tutti i costi. Lì, nel cuore di questi cerchi, ci sono dei singoli individui, dai contorni frastagliati e smunti come dopo un lavaggio non andato a buon fine. Non è loro intenzione confondersi con gli altri, sono anzi tanto integrati con l’ambiente da muoversi solo in corrispondenza del movimento del traffico umano stesso. Intorno gli scorrono campioncini dalle mille espressioni, furibonde, gioiose, interdette. Si accostano ai lampioni, premono compulsivamente gli arti su quelli che immagino essere dei semafori e infine si perdono nella fiumana di gente identica a loro, vestita di tutto punto, ma esibendo ognuno un ghigno diverso. Corrono, eccome se corrono, ma non quanto altri velocisti che faccio fatica a seguire con lo sguardo. Loro è come se levitassero sopra le teste degli altri, anzi, è come se usassero quelle stesse teste come trampolini di lancio. Sono rane che giocano a saltare sopra le orchidee, con la differenza che sono tante, agguerrite e in costante competizione tra loro. È quasi impossibile cogliere i loro lineamenti tanto sono distorti dalla centrifuga che è il loro spostamento.
I miei neuroni già paiono stremati da questo tour dell’insolito. Vorrei ripensare alle scelte che mi hanno portato ad essere la cavia di un pazzo visionario, ma credo che sarebbe utile come voler dare un nome a tutte queste figurine affaccendate che mi ronzano tra i piedi. Resisti e porterai il pane a casa, diceva mia nonna, fornaia e pasticcera sempre abbronzata. Mi chiedo anche cosa porti una mente a lambiccarsi il cervello con certe astratte teorie, sempre sconnesse col mondo reale, fatto di persone che, già per loro natura, sono enigmi complessi da sciogliere.
Quando trema la pavimentazione virtuale per la prima volta quasi non ci faccio caso. Tra l’altro, sono l’unico che se ne accorge. Le strade, i palazzi, i ponti, le sopraelevate, le rotaie fantasmagoriche che ruotano attorno alla viabilità come in un luna park, tutto quel che ho intorno si plasma assecondando gli scossoni. La corrente di persone si adatta alle crepe nell’asfalto e squadre di meticolose piccole api operaie, sono campioncini vestiti di nero e giallo, si rincorrono a valanga fino ad arrivare sui luoghi dell’incidente. Lì riparano, ricostruiscono, modellano la struttura della città secondo le nuove necessità, attendendo il prossimo sisma.
Ma da cos’è stato generato? Mi guardo intorno rintronato. Poi, come se fosse apparso in un battito di ciglia nel mio campo visivo, mi ritrovo a fissare le caviglie imponenti di un gigante di cui non vedo nemmeno la fine delle braghe. È alto, altissimo. Troppo anche solo per ipotizzare che un capo ce l’abbia. Attaccate alle sue gambe, su vari livelli e a varie altezze, ci sono molte sagome umane. Se non fossero gambe a tutti gli effetti li avrei presi per muschi e licheni aggrappati saldamente a scogli o montagne millenarie. Vivono in alta quota, respirando un’aria forse più pura o forse più rarefatta di coloro che non possono spiccare il volo e raggiungerli. Mentre con un occhio mi concentro sulla febbricitante attività del mondo al livello della strada e delle fogne, degli scantinati e dei marciapiedi, con l’altro non voglio perdere di vista la decisione e la determinazione che vedo dipinte in ogni gesto molle di quei licheni strambi e altezzosi. Lo strabismo indotto da questa operazione urta prima i miei sentimenti, per qualche motivo, e solo successivamente le retine sovraffaticate. Questo gigante dov’è che sta andando? Cosa pensa dei moscerini che gli volteggiano attorno alle gambe, quale valore può loro concedere? Troppa è la distanza, diversa l’aria che respirano. Eppure, calpestano gli stessi pixel, si nutrono degli stessi byte, sono il frutto di uno stesso programma originario. Non posso fare altro che chiedermi cosa abbia innescato un’evoluzione tanto discriminante. Dovrei cercare il codice sorgente, il nucleo di questo deviato giardino. Il mio lavoro è quello di trovare le anomalie e riportarle. Di intervenire dove possibile. Di dare un senso, schematizzare, analizzare quello che mi sfila di fronte. Ma, come sempre quando mi trovo davanti a dei sistemi così complessi, mi sembra che ogni ipotesi perda di consistenza, che le parole si sfaldino e che la teoria possa solo ritrarsi in sé stessa, capace di spiegare Tutto, ma incapace di agire.
Da una parte c’è lui, in grado di cancellare un intero quartiere con uno starnuto, dall’altra loro, civilissimi atomi in continua rotazione, senza un nord da seguire, abbagliati dalle mille luci cittadine, in corsa adesso verso una vetrina, adesso verso un battesimo, no, un matrimonio, no, una veglia funebre.
Vorrei non aver accettato questo incarico. Devo togliere questo casco e andare via lontano, prendere delle ferie, viaggiare verso un punto in cui non ci sia …
Ed è in quel momento che capisco il tranello.
Quanti mondi ho perso con il mio sguardo superficiale. Cosa vive nel sottosuolo, cosa nel cielo vicino alla testa del gigante? So, istintivamente, che il sottosuolo è molto più popoloso. Lo so perché il pattern mi è ormai chiaro e perché trovo tutto ciò uno scherzo di cattivo gusto.
Una volta fuori dalla simulazione gli chiedo senza mezzi termini quale sia il suo obiettivo. Lui ha meccanicamente risposto di esigere da me un resoconto, un parere esterno e competente sulla situazione. Lancio il casco a terra, senza impressionarlo. “Allora?”, qui tutta la sua reazione.
«Allora è una follia inutile e senza senso, uno spreco di fondi e di talento, la bravata di una mente geniale, cinica e disturbata.»
Non riesco ad ignorare il sibilo acuto e martellante dell’allarme. Non mi fa pensare lucidamente.
«Dopo tutto quello che ti ho mostrato questa è la risposta?»
«Non c’era nulla da vedere. Devi subito cancellare questa simulazione. Hai superato il limite, è totalmente inutilizzabile, inutile. Non rappresenta nulla.»
Lo dico sudando, nel disperato tentativo di suonare autorevole.
«Ti dirò due cose prima che tu te ne vada. Primo: sei licenziato. Nonostante tutto, ho il potere di farlo e lo farò. Capisci? Non sei nella posizione di trattare, è una questione di catena alimentare. Secondo: non c’è nulla da interrompere o cancellare. Non ne sono in grado, mi segui? Hanno occupato tutti i file disponibili, tutto lo spazio archiviabile è in mano loro. Si sono dimostrati capaci di sfruttare qualunque cosa e cresceranno a dismisura, eccome se lo faranno. Occupano spazio, riproducono materiali, si moltiplicano. E consumano, consumano per crescere sempre di più.»
Esco dallo studio con le mani nei capelli. Ho un desiderio sfrenato di strapparmeli a forza di tirare. Devo fare le valigie, andarmene, trovare una nuova occupazione, ricominciare. Lontano da questo luogo. Mentre le porte scorrevoli si chiudono alle mie spalle sento l’ultimo rantolo del discorso del mio ex superiore:
«C’è un nuovo superpredatore in circolazione!»
Le luci dell’allarme illuminano il corridoio ora di rosso, ora di buio.
Photo by note thanun
4 risposte a “In miniatura”
Bello, mi è piaciuto molto, lo trovo interessante.
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Mi fa piacere!
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Bello anche a me è piaciuto molto
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Ti ringrazio!
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