Il progresso civile e sociale sembra andare di pari passo con la liberalizzazione di certi atteggiamenti. Scaccolarsi in pubblico è diventato piuttosto frequente, proclamare l’inutilità del bidet anche e in molti supportano l’idea di vestirsi sciattamente per uscire, tanto, meglio impegnarsi in una situazione di comodità che accalappiati dall’elastico delle mutande troppo stretto, dalla maglia della salute infilata dove non batte il sole e da quelle camicie fantasia ufficio che accompagnano il braccio nel saluto romano (un saluto ipotetico, una metafora, come a dire “altolà il sudore!”).
Sdoganare i dogmi – che bel bisticcio – è cosa buona e giusta, soprattutto quando trattasi di remore morali dell’anteguerra. Un tempo c’era gente che scappava di fronte ad un gatto nero, oggi, se il buonsenso vuole, la gente continua a temere queste apparizioni teneramente infernali, ma perlomeno lo tiene per sé, simulando una alterigia da diva hollywoodiana delle ere che furono. Nella terra di nessuno confinante con la retorica cattolica, l’influenza protestante d’oltralpe e d’oltreoceano e la schietta e lussureggiante patina pagana che abita in ognuno di noi, è facile cadere nel tranello di una vita concepita come gli anelli di una lunga catena.
Questo è peccato, tuonano preti-vescovi-cardinalserventi dal loro pulpito rialzato e freudianamente rilevante.
Questo è errore, intimano silenziosamente i protestanti che, con l’altra metà del cervello, scudisciano un mulo che non ha superato il record di velocità del progenitore buonanima pelosa sottoterra.
Questo è tutto quel che abbiamo, recita infine il pagano, mentre nella mano destra sostiene un grappolo d’uva e nella sinistra – sempre a sinistra! – una cornucopia che sa tanto di fallo mascherato.
Che fare, quindi, nella terra dei divieti e dei consigli imposti dalla cattedra del rettore? Cosa opporre a questa forza che si propone naturale e che, invece, mostra tutti i crismi di un’umanità di parte, faziosa e schierata a prescindere?
Non guardate me, io non lo so proprio.
L’atto di commettere uno sbaglio è stato giustamente normalizzato. La perfezione, questa parola dal significato piuttosto ambiguo e che pare trarre radici nella grazia cinquecentesca di valorosi signori quali il Baldassare Castiglione, è irraggiungibile e tremenda è l’esistenza di coloro che si dannano l’anima pur di essere soddisfatti di qualcosa che, per definizione, non può darsi, concedersi, mostrare i propri frutti succulenti. La perfezione pertiene agli dei, e neanche in tutte le religioni rivelate, ed è una chimera che ha per corpo uno slime disarticolato e per capo uno specchio che ci rimanda indietro la sagoma del nostro volto. Non si può, anzi, non si dovrebbe, essere perfetti. In primis, perché indispone. Già, strano a credersi, ma è più facile immaginare gli attriti tra una persona competente e una che predilige lo status quo rispetto a quelli che potrebbero nascere tra due tifoserie avversarie. Di fatto, le due curve, mentre si appellano a tutto il proprio repertorio di turpiloqui, si riconoscono e si accettano come contendenti su uno stesso terreno. Colui che, a malincuore degli osservatori, si prepara a compiere il grande balzo nella dimensione dell’infallibilità, sta di fatto marcando una distanza, si sta allontanando da tutti quelli che, per un motivo o per un altro, si sono accorti che rompersi la schiena per spaccare ogni capello in quattro è forse – e sottolineiamo forse – controproducente. Quindi, si torna alle basi del vivere sensato, si torna nella dimensione dell’errore. Errare non solo è umano, ma è anche un ottimo mezzo per imparare. L’errore, in didattica, è fondamentale. Non va censurato, non va nemmeno insabbiato come un’indagine fiscale ai danni di qualche imprenditore blasonato che tanta bella figura ci fa fare con gli azionisti di tutto il mondo. Va riconosciuto, ne va tracciata la fenomenologia e, infine, se ne devono discutere le cause per impedire che venga ripetuto. L’ho detto poco fa, errare è umano ma, per concludere la massima, perseverare è diabolico. Qualcuno di voi starà già pensando: io voglio essere diabolico, cosa vuoi tu, angioletto da strapazzo sulla mia spalla, dalla mia vita? Ecco, la risposta è niente. Siete – siamo – liberissimi di essere la nostra versione peggiore e abbiamo tutte le carte in regola per diventare i signori dell’Ade, senza scomodare la mitologia biblica o quella greca. Distruggere, del resto, è infinitamente più facile che creare. La creazione necessita di tempo, cure, attenzione e conoscenze specifiche, la distruzione non concede spazio alla ragione, cancella e basta come un possente colpo di spugna. Io diffiderei da chi propone di lasciarsi andare e di sbagliare a ripetizione, come se nell’azione stessa ci fosse chissà quale beneficio filogenetico, così come di chi promulga idee di autoconvincimento e di potenziamento personale volto all’infaticabile sorriso del giusto. Messa così è complessa, me ne rendo conto, ma il concetto è molto semplice: a volte si sbaglia, a volte ci si comporta da manuale, il fulcro di tutto sta nelle intenzioni e nell’impegno personale. Non siamo automi programmati per sorridere, stringere mani e indicare il bel tempo accennando alle doti mistiche del Colonnello Bernacca. Non siamo neanche rigidi e cinici Diogene, assiepati nella botte, lerci, nudi e maleodoranti come puzzole allertate. Siamo, tuttalpiù, un allegrissimo mix di queste due posizioni, ma contemperate con tutte le sfumature nel mezzo.
Prima, parlando della perfezione, ho usato la formula in primis. Quindi, cosa viene dopo? Potreste scoprirlo leggendo il fantastico romanzo di Imai Messina, Non oso dire la gioia, all’interno del quale un personaggio in particolare, Clara, vi trascinerà nelle avviluppanti conseguenze di un’esistenza trascorsa rifuggendo gli errori e i fallimenti. Lo status di chi, temendo il baratro, si corazza di abilità e buona volontà è come quello di un funambolo esperto che palleggia con la vita sulla corda sottile che collega due grattacieli. E, diciamocelo tra noi, sottovoce, chian’ chian’, l’errore arriva per tutti. Vedrete come reagiranno le persone tutt’attorno. Sciameranno, come insetti vispi e malevoli, alla caccia del miele, dell’ambrosia del popolino. Ha sbagliato, ha sbagliato, ha finalmente sbagliato! Proclameranno danzando in cerchio attorno al loro arido orticello.
Photo by Milad Fakurian
4 risposte a “Errare (sbaglio o viaggio?)”
Hai detto benissimo, la perfezione non esiste perché siamo essere umani e questo implica fare errori. Ma abbiamo anche un cervello (almeno si dovrebbe), quindi cercare di non ripetere i propri errori deve essere la missione di ognuno. Buona giornata 🙂
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Ci sono errori ed errori e già questa dovrebbe essere una linea di demarcazione netta dove l’errore può da una parte essere tollerato mentre dall’altra no. Un attore può sbagliare una battuta…non succede nulla…un chirurgo o un pilota non possono sbagliare: se lo fanno ammazzano persone! Ma se nel secondo caso si cerca a monte di prevenire con ogni mezzo l’errore è invece diventata consuetudine accettare gli errori lievi e sì, ci sta però credo che, ognuno di noi dovrebbe anche essere educato nel capire gli errori commessi per non commetterli più. Questo è il solo modo che ha una società per evolversi. Sbagliando si impara si diceva una volta. Da un pezzo non si impara più nulla…
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Ci sono sbagli che hanno delle conseguenze tremende e sbagli che, fortunatamente, sono piuttosto innocui. In generale però reputo sia importante dare il giusto peso agli errori. Non vanno assolutamente stigmatizzati, ma certo nemmeno sdoganarli come comportamenti di tutti i giorni è il massimo dell’intelligenza. E se, come dici, si imparasse anche qualcosa da questi inciampi … non sarebbe per niente male!
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Si, sono d’accordo con te!
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