Di rabbia e nomi propri

Il sole batte sullo sterrato e tre uomini osservano un carretto trascinare con sé bagagli e due donne. Si toccano il cappello, alzano le mani al cielo e quando il mulo si ferma s’accostano al cocchiere. È un uomo anziano e dice loro che sta attraversando il paese. Per paese non intende la nazione, non questa Italia uscita con le ossa rotte dalla Seconda Guerra Mondiale.

Il suo paese è un piccolo centro toscano. Lì è nato e cresciuto, lì ha conosciuto la donna che poi ha sposato e sempre lì, nel camposanto antico, ha seppellito gli infermi genitori. Si sta spostando, dice, a causa della costruzione di nuove case. Già la chiamano periferia questa escrescenza del borgo vecchio. Hanno promesso, a lui e alla famiglia tutta, di trasferirsi là dove i servizi non tarderanno a svilupparsi, dove il sole sarà acceso a tutte le ore e giù di vanga, di botteghe e fattori. Quell’Italia che si è divisa in due, che ha combattuto ora contro un’alleanza, ora contro un’altra, e che, infine, si è rivoltata contro sé stessa, gli ha consigliato di assecondare il cambiamento, di farsi furbo, di cogliere le occasioni del progresso. Questo dice l’anziano ai tre uomini sul ciglio della strada. Sono seduti su tre botti di vino, dalla grandezza diversa perché diverse sono le loro stazze. E si offrono di dare una mano, perché tra buoni cristiani, pardon, tra buoni esseri umani, ci si dovrebbe sempre aiutare. L’anziano scuote la testa e sorride. Ringrazia, fa i complimenti. Dopodiché, avendo capito che i tre uomini fanno sul serio, decide di concedersi e di lasciare nelle loro mani giovani quel che resta del suo futuro. È stipato sulla carretta, il futuro dell’uomo. E, insieme ai cocci, al baule dei vestiti e alle due donne, c’è tutto il suo passato. Ci sono le bombe deflagrate a pochi salvifici centimetri dal muro dell’abitazione precedente, i canti estivi di ritorno dai campi e le interminabili bevute nell’osteria che occupa il centro di un piccolo crocevia. La locanda, ricorda adesso l’anziano, ospita già da tempo gli stranieri, ma sì, quegli uomini bassi e svelti, dai baffi neri e appuntiti e la calata quasi incomprensibile. Le due donne si stringono nelle vesti quando gli uomini si accostano per salutarle. Ossequi signore, dove andate belle signore, siamo qui per dare una mano belle signore. Arrossiscono, loro. E il trio, stanco di discutere sullo scioglimento del Partito d’Azione, stanchi di immaginare i mille e uno modi per ingannare gli esperti della menzogna – i cattolici arrembanti – e altresì stanchi di dar da mangiare ai propri cervelli nient’altro che spiccio idealismo, aiuta volentieri quest’uomo anziano che potrebbe fare, a tutti loro, da padre, da nonno e da fraterno amico.
Ci sono tanti nomi propri da snocciolare. In paese si conoscono tutti. E, fortunatamente, c’è sempre tanto da fare. Si gioca a pallone ogniqualvolta l’occasione lo permetta. Due alberi diventano i pali e una palla di cuoio ruvido la si rimedia. Intanto, i grandi si affilano le nocche sul legno, zappano la terra arsa dal sole, recuperano le montagne con lo sguardo ampio dei lavoratori infaticabili e sognano la brocca di vino, il pezzo di pane, l’ottavo di formaggio e una mezza cipolla. I tascapane sono sempre pieni zeppi, nonostante si dica – e si sia sempre detto – che c’è penuria di beni, che si fa la fame, che la carestia uccide più della violenza. Strano che a dirlo sia chi le bombe le ha lanciate in trincea, sulle alpi e non sull’appennino, anni e anni or sono. I nomi propri, sempre i nomi propri. C’è il Renzo, il Remo, l’Orazio, il Paolo, il Biagio, il Marcello, il Tommaso, il Luciano. Una Michelina ogni tanto, forse una Giovanna e una Maria. È incredibile, pensandoci, quanto trasversale sia il nome della madre di Gesù. E questi nomi si rincorrono sui tavolini dell’osteria, mentre le prime imprese si affacciano sulla strada cittadina. La domenica, col vestito buono, si passeggia mentre nella via parallela i gendarmi fanno sfilare pastori e bestiame come fossero attrazioni circensi. E le ragazze son pudiche, sebbene a voce e mai di gesti, i ragazzi sono sportivi, scattanti e seri, tuttavia di facciata, poiché sentono dentro un fuoco che un po’ li scioglie e un po’ li inquieta. Sono sempre meno solidi di quel che sembra e non sanno che direzione prenderanno le cose. Parlano di nomi, sempre di altri nomi, e non capiscono gli agi di chi ordina da bere e da mangiare. Che non basti agli industriali in erba, agli impiegati in fasce, il belato di una pecora e un prato folto in cui cascare? C’è tanto lavoro da fare, ci sono tante persone da svegliare. Sì, perché i concittadini vanno svegliati, le sezioni vanno affollate e le risorse gestite e calibrate. C’è il vento, lo sentono tutti il vento, e bisogna cambiare, cambiare e migliorare. Anche se non si hanno qualifiche precise si può operare, lavorare, insomma, fare la propria parte. C’è chi diventa insegnante, chi amando il cinema diventa critico militante, chi invece fa della fotografia la sua spina nel fianco metafisica. Infine, c’è anche chi è particolarmente bravo a dar calci al pallone. Gli si prospetta un gran futuro, forse in serie C e oltre, chi può dirlo. Ma è forte questo ragazzo, un centromediano come non se ne vedono da anni. In Nazionale, forse, ce ne può essere uno all’altezza, sebbene non sia mai detta l’ultima parola.
Si parla tanto, eccome se si parla. Ci sono riforme da portare in porto e discussioni, riunioni, discorsi da articolare all’infinito. E’ il Lavoro culturale che arremba e potrebbe trasformare il mondo. La cultura, quella vera, inizia a circolare come un fluidificante. Si accalappiano investitori, professori, esimi pensatori. Bisogna istruire. C’è bisogno di pedagogia e educazione. È l’ignoranza che ha permesso agli scontri militari di sbocciare.
Contestualmente, il tempo passa, trascorrono le stagioni e la guerra si allontana, i rastrellamenti diventano un vago ricordo indistinto e gli animali, unici veri testimoni della natura, fanno il verso agli umani che non concludono mai niente se non morendo. C’è ancora del buono in circolazione. Ci sono gli amici, le prospettive di ottimi impieghi, le case arredate, le comodità e le mogliettine vestite di pizzo.

Chi lo avrebbe detto, ma i nomi propri si sono ridotti. Adesso ci sono tante Marisa, qualche Olga e un paio di Viganò per cognome. Anzi, a farci caso, quanti cognomi. I nomi propri fanno parte della vita di prima, della vita di paese. Ebbene sì, si è passati nella grande città. Nella rutilante metropoli in formazione. Per le vie del bosco moderno non si incontrano anziani e carrette, non ci sono muli e tantomeno traslochi di vite passate e future. Ci sono la gente, la massa, il gruppo. C’è il fluire costante di un torrente impetuoso che pare l’unico articolo della costituzione. Le riunioni sono finite, non è più tempo di dedicarsi idealisticamente alla stesura di un codice nuovo e adatto alle generazioni di là da venire. Quale mondo erediteranno? Difficile dirlo, ma circola grana, circolano dané. La grana è quella che si fa, sono i soldi guadagnati e potenzialmente spendibili, mentre i dané sono quelli che si danno, che si consegnano. Qui, in città, è meglio avere tanta grana e pochi dané, che poi sono cambiali, ipoteche e debiti con il nuovo stato repubblicano e le sue propaggini cittadine. È stata detta una bugia, le riunioni ci sono ancora. Adesso, però, si discute di marketing e di linea editoriale, di virgole e impaginazione. Cosa ce ne pare di una bella collana di sociologia? La sociologia vien dall’America e si sa, là sono più liberi di essere servi. Laggiù, nelle terre della frontiera e del sogno, i padroni ascoltano i lavoratori fregiandosi del titolo di custodi delle risorse umane. Ciononostante, di questa sociologia, ne vogliamo sapere? È un argomento pericoloso. Perché mai parlare di come si sta sviluppando la società, quando si può insegnare a tutti a performare? Non bisogna dare al popolo le chiavi del portone, bensì consegnargli un numerino e metterlo in fila. Che aspettino pure il loro turno, da persone civili e beneducate. Niente rivoluzione, ribellione, anarchia, socialismo, comunismo. Nessuna apertura, niente conti in sospeso con quelle che già chiamano, con sprezzo, ideologie. Con le idee non si mangia, né si campa bene. Le idee non sono un lavoro, a meno che non fruttino grana. Invece, tutti quelli che dicono di avere qualcosa da dire, hanno tanti dané. Cassata la sociologia si può parlare di una collana di classici del pensiero. Che ne dite di un Croce, forsanche di un D’Azeglio, un Gioberti e Vico? Nuove riunioni, subito, inframmezzate tra caffè presi al bar, segretarie dai tacchi a spillo e famiglie che si formano e disgregano con la rapidità di un tram. E nei tram, assottigliati come acciughe in barattolo, l’umanità brulicante del secondo dopoguerra va, va ovunque, in ogni direzione, raggiungendo ora un centro e ora un altro, che poi, sebbene sia risaputo che un cerchio possiede solo un centro, nessuno si domanda mai dov’è che arriva davvero. La collana di pensiero forse è troppo, chi ha tempo, oltre al giornale, di leggere davvero? Serve informazione pratica, servono manuali e saggi e dissertazioni aziendali. Ma quei nomi propri, già, sempre loro, dove sono finiti? Coltivano i rapporti di forza all’interno delle imprese e delle aziende. Pian piano, le luci della ribalta si spengono e si diventa pingui e borghesi. Le comodità straripano e il cinema, prima una magia, adesso cambia di segno diventando un lusso. Ma ci sono ancora l’amore, il gioco, le barricate sulle strade e le prese di posizione, la gioventù che non si arresta e non si conforma, non tutta, perlomeno. Alla fine, invece, ecco L’integrazione, il caffè con il giornale, le attese dalle segretarie, i colleghi animati da buone intenzioni avviluppati nelle reti dei superiori e ancora il medico della mutua che manca, le banche che estorcono e le formiche che sciamano sui marciapiedi, disinteressate. C’è ancora del buono in circolazione. Ci sono figli, speranze e qualche compagno di strada.

Sono spariti i nomi. Anche quello dei fratelli e delle sorelle. Se si nomina qualcuno è solo ed esclusivamente perché bisogna pagare qualcosa. La prima famiglia non funziona, il pargolo ha la tosse di continuo e la compagna è assorbita dalle cure domestiche. La seconda nasce dal nulla, un giorno in cui si marciava per la pace tra viali e controviali. Ha i capelli biondi, la giovane. Gambe slanciate, viso piccolo e grazioso. Un fiocco rosso al collo e occhi determinati, forse verdi, impossibili da celare pur con l’ausilio della cappa dei fumogeni. Il lavoro stagna e i licenziamenti si susseguono. Non essere addomesticati equivale ad essere improduttivi e chi non è produttivo va sostituito come un ingranaggio difettoso. Lavorare diventa “far polvere”, essere cercati si trasforma in essere perseguiti, accerchiati, in parole povere “tafanati”. Il telefono squilla solo per dar rogna, sono i maledetti dané che emergono a galla. Non si può più vivere in un appartamento condiviso, i coinquilini hanno le loro ragioni come la padrona di casa, e se si vuole metter su famiglia – un’altra – bisogna avere spazio. Arrivano i coniugi di mezza età dal trentino, ma con il loro scaldabagno a orologeria e i ritmi vetusti sono compari scomodi. L’unica via è quella di isolarsi tra quattro mura, circoscrivendo il mondo tra due fila di strisce pedonali. I collaboratori esterni vengono spesso cercati per far quadrare i conti. Si dà loro lavoro a cottimo, li si maltratta e bistratta. Del resto, hanno bisogno di grana e la voce troppo grossa non se la possono permettere. Tutti si sono riscoperti venditori, hanno qualcosa nella giacca, in casa, nel bagagliaio da poter vendere e far fruttare. Lo smog accentua la bronchite, a calcio non ci si può più giocare – dove gli spiazzi erbosi, dove il tempo materiale? – e come unica alternativa viene in mente che si potrebbe far detonare, sì, spazzare via, il palazzone di vetro e metallo dove risiedono le maledette risorse umane. Ma cosa cambierebbe, in fin dei conti? Nulla, lo sanno tutti. La detonazione non è altro che l’ennesimo tentativo del cervello di sopravvivere all’asfittica velocità della metropoli. Se non si può esplodere e nel contatto umano non si ritrova che la freddezza delle circostanze, cosa rimane nel paniere? Di poter dormire e ancora dormire. Di assuefarsi senza prendere vacanze, senza scoprire nuovi posti e riducendo al minimo gli spostamenti. Ché tanto, per essere felici di questa nuova felicità consumistica, serve la grana e qui si hanno solo dané. Per questo si approda a La vita agra.

Recensione impressionista della Trilogia della rabbia di Bianciardi, mas o meno.

Photo by Engjell Gjepali

5 risposte a “Di rabbia e nomi propri”

  1. Sarò sincera, ho letto tutto pensando si trattasse di un racconto, di uno spaccato del dopoguerra italiano, e invece è una recensione, davvero non me l’aspettavo. Complimenti, mi è piaciuta molto, darò anche un’occhiata al libro quando possibile.

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