Intrecciare cesti di vimini è un’arte sublime. Sì, perché nei viticci, nel cuore delle masse ingarbugliate, spesso risiedono pazienza e dedizione. Personalmente, quando mi ritrovo ad ascoltare gli aneddoti di un artigiano oppure di una persona che ha dedicato la vita ad una tecnica – e per tecnica si può intendere anche l’abilità di far cadere i prodotti dal distributore senza inserire monetine oppure la pesca al salmone con guanti e coltello da Rambo tra i denti – rimango senza parole.
Spesso, i testimoni di queste avventure sono individui che hanno giocato a carte con il Tempo, sono coloro che non si curano, e non comprendono, il nostro diffusissimo disturbo dell’attenzione. Il loro cervello si è strutturato attorno a pochi compiti selezionati trasformando un’azione in una tipologia d’arte meccanica. Con buona pace di tutti quelli che discriminano la tecnica dall’arte, io, umilmente, preferisco stupirmi di fronte a un bel quadro così come di fronte a un oggetto prodotto con finalità più pratiche, purché bello e, dato il suo scopo, funzionale. Del resto, interpellando l’etimologia che tutto vede e tutto ha previsto sebbene nei termini di una sibilla, arte deriva dal termine ars e l’ars cos’era se non la tecnica stessa? Questo per dire che l’idea mistica di un’ispirazione che cala dal cielo investendoci di tutto il suo sapore di erbetta di montagna è un po’ una fregnaccia, pardon, una mistificazione – e via di bisticci! – da demagogo di piazza. L’arte unirà certamente una pletora di sensazioni individuali e soggettive, questo è pressoché indiscutibile, ma deve accompagnarsi a un percorso lungo e tortuoso di allenamenti e prove e messe in discussione. Quelli che hanno il coraggio di leggere tutti i miei allegri sproloqui avranno capito una cosa su di me: sono un po’ il Sisifo di noialtri, l’avaro-prodigo di dantesca memoria. Io porto sassi, massi, selci e pietruzze, avanti e indietro, avanti e indietro, sullo stesso percorso battuto già da tanti prima di me.
Ho un evidente problema con le introduzioni. Nella mia mente è chiaro dove voglio andare a parare e poi, dopo circa una ventina di righe, mi rendo conto di aver pesantemente deragliato dal tracciato. Torniamo di gran carriera e in pompa magna ai cesti di vimini, che ne dite? O meglio, non ai cesti in quanto capolavoro di cocciutaggine, bensì per la loro natura intrecciata. Viviamo tutti nelle maglie della società e ne conosciamo intuitivamente i meccanismi. Sappiamo che ci sono code, attese, preparazioni e ritualità da rispettare. In alcuni casi, ci vengono a vantaggio: penso alle ricorrenze e alle festività le quali, benché dileggiate come un retaggio da vecchi bacucchi, sono ancora in grado di portare un po’ di compagnia anche laddove il tessuto connettivo tra le famiglie si è via via sfilacciato. In altri, invece, queste consuetudini alterano il buon umore con la facilità di una craniata sullo spigolo dell’anta dell’armadio. E penso adesso alle lunghe file sopportate alla cassa di tal-questo e talaltro supermercato, negozio, spaccio, posta, ospedale. Oppure, alle vischiose reti di compiacenza e circostanza che si instaurano nell’interazione tra persone appena conosciute. Insomma, pur non sostenendo consapevolmente tutti questi oneri, rispettiamo delle leggi non scritte e pretendiamo, in virtù del nostro impegno, che gli altri facciano lo stesso. Non è però questione di pura educazione, intesa come buone maniere e non come istruzione, bensì come galateo. Già, per quanto possiamo criticare questa vecchia bestia, questo matusa antico, il galateo fa ancora parte della nostra vita, attivamente. E non si tratta dell’ordine delle forchette sul tavolo, di quale bicchiere vada abbinato a quale bevanda oppure dell’etichetta da seguire di fronte alle gerarchie. Galateo è ciò che ci porta a rispondere “tutto bene” a qualsiasi domanda di rito. È ciò che impone un sorriso sulle labbra di fronte a situazioni spiacevoli o a persone sgradevoli. È quella grazia di stampo rinascimentale che non permette a colui che si impegna profusamente in un’attività di dichiarare apertamente che sì, diamine, quella cosa gli è riuscita bene perché il novanta percento del tempo lo trascorre ad allenarsi. Purtroppo, è ancora molto comune mistificare il proprio lavoro pur di apparire naturalmente dotati e talentuosi, cosa che, tra l’altro, trovo di una tristezza poco invidiabile. A parità di risultato premierei sempre il meno dotato dei contendenti. Ovviamente, galateo è anche lamentarsi incessantemente dei problemi della vita, come se si stesse sfogliando un album di figurine con i malanni del passato pronti a dire “ce l’ho, ho anche questa”. Una sorta di momento amarcord della sofferenza. Infine, per terminare questa faziosa carrellata di spunti tali da far impallidire Monsignor Dellacasa, abbiamo il galateo dei social e delle relazioni internettiane. Le emoticons dopo una frase per far intendere il proprio tono, il like alle foto per trasmettere interesse, le attese prima di rispondere a un messaggio, il metti-e-leva delle spunte blu e dell’ultimo accesso visibile, le frasi del profilo, le condivisioni e i commenti sotto i post altrui.
Chiariamoci, non c’è niente di sbagliato nell’etichetta in quanto tale. È uno strumento sociale, nulla di più. Sarebbe folle ritenerla intoccabile così come attaccarla acriticamente su tutti i fronti. Internet è uno strumento potentissimo e in quanto tale va imparato a gestire, non è buono né cattivo. Un coltello ricopre lo stesso ruolo, può essere usato per tritare gli odori per il brodo e per uccidere un passante inconsapevole. Ma cosa succede quando il galateo diventa una sorta di Vergine di Ferro? Quando, apparentemente, ci si percepisce come dei manichini in preda a forze superiori, intoccabili e irraggiungibili?
Ecco, in questo caso, ci si proietta nel mondo di Kafka. Già, proprio lui. Lo avete presente? Era questo ometto boemo che visse a cavallo tra Ottocento e Novecento e che ci ha regalato alcune tra le opere letterarie più interessanti e originali del tempo. Fu talmente bizzarro da meritare la coniazione di un aggettivo tutto suo: kafkiano.
Il termine kafkiano è un neologismo della lingua italiana che indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l’impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico (Wikipedia, con l’accento sulla i!).
Quando vi capita di svegliarvi e di non trovare motivi per alzarvi dal letto, quando vi sembra che tutto sia stato scritto, che voi non siete altro che le comparse di un disegno sceneggiato altrove, quando, insomma, vi svegliate insetti, alla Gregor Samsa, ricordate che nessuno può impedirvi oggettivamente e concretamente di fare quel passo che vi porterà in cucina, di allungare le gambe quanto basta per raggiungere la caffettiera, preparare un delizioso caffè e iniziare la giornata, forse, con uno stato d’animo rinnovato.
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2 risposte a “Pietruzze e insetti”
E’ sicuramente così, ma ormai alla mia età ho imparato a fregarmene anche del galateo, preferisco dire quello che penso, anche se può far scatenare reazioni a non finire 😉
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E magari potrebbe anche essere divertente!
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