Scenderemo nel gorgo muti.
È il verso che chiude una delle più belle poesie di Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Cosa susciti in me questo semplice epitaffio, questa nota di chiusura sì elegante e sì profonda, è difficile da dire a parole. Ho incontrato questa poesia durante il mio primo anno universitario, quando il mio mondo era in rotta di collisione con la crudezza della vita reale. Quella che, per capirci, ti spaia i calzini nella lavatrice e ti costringe di domenica mattina a cercare i prodotti per pulire la casa nello sgabuzzino. Tra un fondo di caffè bruciato e una brodaglia dello studente simil-cicoria e probabilmente ugual-ciofeca, scoprivo le carenze dell’insegnamento liceale e il modo tutto nuovo di osservare la letteratura e la storia del pensiero che i sapienti dell’università cercavano di tramandare a noi testoline vuote di competenze e stracolme di idee posticce e arrangiate.
Quale esperienza può condurre un individuo sulla strada del gorgo? Gorgo che, per antonomasia, è un burrone avviluppante, un serpente mefistofelico che stringe come una cinghia attorno alla vita, è, in ultima istanza, un vortice che cattura lo spazio, il tempo e la luce. Lo immaginavo buio, questo scolo del lavandino. Oscuro come le grotte delle fiabe e crepuscolare come la mano di Corazzini. È inutile negarlo, ne ero ovviamente affascinato. Graffiando il grigio asfalto di Roma mi sentivo partecipe di questa lunga processione che, infine, mi avrebbe condotto, insieme a tutti gli altri, verso questa meta definitiva e di compagnia. Di compagnia perché se c’è una singola dimensione dell’esistenza che ci accompagna dall’inizio alla fine del nostro Grand Tour del globo terracqueo, ebbene questa amica-nemica, questa scartavetratrice di sogni e gioielli di famiglia, è proprio la morte con la m maiuscola, equipaggiata di falce, cappuccio nero e un senso dell’umorismo, come è giusto che sia, ultraterreno. Nelle aule spesso asfittiche dell’università si inseguivano relazioni e sodalizi, si creavano intese e complicità, si spezzavano possibilità sul nascere e si operavano d’urgenza dei germogli che in quella terra non sarebbero mai cresciuti. Ed ecco che i pinguini ammanicati – certi professori dalla lingua profetica e le guance rubizze di vino – pontificavano, sciorinavano e imbastivano storie dette e ridette, masticate e metabolizzate, sputate e, infine, consegnate nelle mani di noi studenti come se stessero maneggiando il pomo della discordia. Oro, oro, oro, ma a quale prezzo.
Eppure, in questa Babele di contraddizioni, sopravviveva la schietta sincerità di coloro che amavano qualcosa o qualcuno. Forse un romanzo, un periodo storico, una rivista culturale, una poesia oppure la biografia di una nobile chiusa in convento e costretta a fingere di essere tormentata dal diavolo per evitare che altri – i suoi concittadini – la tormentassero a loro volta. Queste figure appassionate scagliavano frecce in ogni direzione come i dongiovanni il proverbiale amo nell’oceano. Speravano – sparando parole – che prima o poi qualcuno avrebbe colto la loro richiesta di soccorso, il loro S.O.S. lanciato nel vuoto a venire, nella crisi del sistema della cultura di un paese che ha dato i natali al Sommo Poeta. Dico questo perché, a scanso di equivoci, trovo importante sottolineare una differenza sostanziale tra i professori del liceo e quelli dell’università. I primi sono professionisti dell’educazione, si spera, e hanno un bagaglio di nozioni e abilità di tutto rispetto. Il loro compito è quello di fornire gli strumenti alle nuove generazioni per non permettere a questi giovani di naufragare nel dolce mare di leopardiana memoria. Sono esecutori di una missione quasi apostolica che, se svolta con perizia e dedizione, può dare dei frutti che l’ingegneria genetica può solo sognarsi. Purtuttavia, devono fermarsi sulla soglia della verità pur di raggiungere gli studenti in maniera efficace. Non possono scandagliare la fossa delle Marianne della conoscenza e trarne fuori scrigni pieni di dobloni perché prima di tutto manca il tempo materiale e, secondo, perché sui dobloni vi sono iscrizioni che gli adolescenti ancora non comprendono. Non perché siano stupidi o limitati, semplicemente perché ad ogni fase della vita corrispondono determinate prerogative. Fate fare ad un quindicenne il trentenne ed ecco che avrete rovinato un delicato fuscello. Il professore universitario, invece, dichiara la sua insicurezza nel momento stesso in cui compare dietro la cattedra per la prima volta. Il suo è un mondo in crisi fatto di meme e declassamenti. Il suo universo di parole stampate sta tramontando così come il suo prestigio da detentore del Sapere Specifico. Deve trovare degli eredi, dei discepoli ai quali tramandare il verbo, la tecnica, la sostanza. E invece si arrocca, come un filibustiere in un fiordo, sulle proprie tracce. Ripercorre i suoi passi e li vorrebbe vedere emulati. Passeggia, stancamente, avanti e indietro nel corridoio attendendo che una sua versione più giovane possa farlo sopravvivere nel tempo. Sciocca ambizione, quella di sopravvivere al tempo. Eppure lui sa! Lui detiene! Lui conosce! Ma di tutto questo fardello cosa riesce a sfruttare, quale alta tranquillità, quale otium illuminato ha raggiunto?
Si vede calciato via dal suo scranno e dileggiato da facinorosi-giovani-bastardi – eccomi qua – pronti a rottamare tutto quel che si può afferrare con mano. E se sapesse, se solo immaginasse, quanto quegli stessi facinorosi abbiano bisogno di una guida, di un vero condottiero per dare un senso ai loro sogni ancora in erba, se solo sapesse questo, stamperebbe una faccia diversa sul duro marmo bianco del pavimento.
Ed è così, silenziosamente, senza attenzione, nell’indifferenza collettiva, che si scende nel gorgo muti, che si trova la morte negli occhi di, nelle mani con, nell’amore a.
Nei Tarocchi la Morte non rappresenta la distruzione, bensì la chiusura di un cerchio e il principio del successivo. Quindi, anche qui, uno spiraglio si apre a illuminare l’orizzonte.
Qualcuno, dopo tanti anni, quel verso continua ad amarlo.
Qualcuno lo tramanda, molti lo dimenticano, altri lo nutrono.
Non può essere andato tutto storto, quindi. Qualcosa si può sempre salvare da una nave che affonda.
Photo by Enrique Ortega Miranda
5 risposte a “PoesiaNove – Il gorgo ha fatto anche cose buone”
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi…
Quante volte mi ritrovavo a dire o scrivere questo verso amato! Mi sembra in sé perfetto a suscitare un’immagine di un baratro in cui scivolare dolcemente, come se la semplice presenza dell’altro (dell’amore) attutisse la caduta o la rendesse interminabile. Grazie per questo ricordo, questa poesia sarà eterna.
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Baratro che solo una persona come Pavese, dati la sua biografia e il suo sistema di valori e principi, poteva riuscire a descrivere con tanta intensità e, forse, disperazione
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Quella sicura, purtroppo.
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Complmenti per la trattazione, la strada per la bellezza non viene insegnata a scuola, è una ricerca individuale usando le conoscenze apprese come strumenti.
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Mi trovi perfettamente d’accordo 🙂
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