La pozzanghera dell’individualità

Alla fine, le regole che animano la totalità non ci interessano davvero. Anzi, spieghiamoci peggio, ci interessano ma ci riguardano solo parzialmente. Che ci sia un determinato trend in voga, una moda imperante oppure un mindset supportato dai grandi magnati del mondo dello spettacolo ci colpisce nella misura in cui cambiano la percezione del mondo nel quale siamo immersi. Vestirsi con un tappeto e fingere di sfoggiare un vestito d’alta classe non significa rendere quel tessuto calpestato più e più volte dal gatto domestico un prodotto confezionato per essere sfoggiato sulla passerella della settimana della moda di Milano. Eppure, per una magia che tanto ha a che fare con il funzionamento del cervello e poco con la stregoneria vecchio stampo, se qualcuno riesce a fare breccia nel cuore del pubblico, riesce insomma a cacciar fuori il piffero dalla tasca e a pilotare i topolini ignari e spesso in buona fede, ha la capacità di rendere quell’oggetto d’antiquariato comprato per due lire al mercatino dell’usato un’opera d’arte contemporanea dal sapore di presa per i fondelli cosmica.

Dire che l’apparenza nella vita non conta è come credere che dopo aver speranzosamente collocato un dentino scheggiato sotto al cuscino una fatina di azzurro vestita farà un salto nella stanza da letto per ricompensare il piccolo con una monetina (o una banconota, per i genitori dalle occhiaie più profonde). L’apparenza è il biglietto da visita della quotidianità, è la copertina del libro e il vestito del monaco. Non è importante la copertina, così credete? Significa che siete persone dall’animo buono e smagato, forse un po’ ingenue, e dio ve ne scampi dal cambiare. Ciononostante, come i vecchi proverbi ci insegnano – avete notato quanto entrino in contraddizione gli uni con gli altri? Ah, questa vecchia saggezza popolare, che gran birbona – la sostanza è altra cosa della mera esteriorità. Indossare un capo firmato non fa di noi individui più prestanti, giudiziosi o raffinati, così come far finta di avere un carattere diverso da quel che si possiede non è sempre segno di abilità, ma anche di gravi lacune da colmare con i mezzi a propria disposizione. Ma la sostanza, dicevamo, a volte si identifica con quello che sentiamo, percepiamo e immagazziniamo in un dato momento. Al di là dall’essere persone tendenzialmente riflessive e pacate potremmo trovarci nella spiacevole condizione di dover alzare le mani per difendere la nostra incolumità. Benché impulsivi e reattivi, potrebbe invece capitare di dover ragionare approfonditamente su qualcosa in modo tale da non incappare in errori irrimediabili. Possiamo affermare che, con buona pace dei generalisti, siamo una piscina abitata da predatori di taglie e caratteristiche diverse e non sarà mai prevedibile al cento per cento il futuro di questa deliziosa pozzanghera che chiamiamo individualità. E se una persona con la testa sulle spalle, il sale in zucca e altre allegre espressioni idiomatiche per definire la maturità inciampasse in un ostacolo facilmente sorpassabile? Cosa ne ricaveremmo?
Che l’esistenza è una successione di momenti e un accumulo di esperienze. La congiunzione coordinante copulativa e ci parla di un legame inscindibile tra i due elementi. Non esiste aut aut, non c’è esclusione, solo semplice e rigorosa unione.

Oggi come oggi siamo affamati di storie vere. Per vere intendo quelle narrazioni dal taglio sistematicamente autobiografico o biografico che entusiasmano l’audience e fanno sprizzare gioia dai pori dei fan di tutto il globo terracqueo. Ogni giorno veniamo subissati dalle news circa le riprese di un documentario, di un film sulla grande ascesa di questo brand e quest’altro marchio, forse in qualche modo sperando anche di godere dell’onda lunga – che ribattezzerei orda verde in virtù del mio odio per il traffico urbano – del suo successo e di una sua possibile emulazione. Storie vere, verità, esperienze concrete e storicamente dimostrabili, eccesso di informazioni, fomo, storytelling incessante della vita più minuta. In tutto questo, a campeggiare come un obelisco sgraziato e affascinante, c’è la trilogia intitolata La bella estate, una serie di romanzi di Cesare Pavese accomunati dai temi in essi affrontati e non dalla loro contiguità cronologica. Non so dirvi se nel nostro mondo iperconnesso da supermarket – ricordo ancora quando usare questi prefissi era da sfigato, già, l’ho scritto proprio come l’ho pensato, sfigato – questi tre romanzi avrebbero visto la luce. Si tratta di opere di una lunghezza modesta. Non ci troviamo di fronte ai papironi ottocenteschi di un Melville o un Dostoevskij. I personaggi e le scene vengono introdotti in medias res e il lettore riesce a costruirsi un’idea del mondo portato sul palco solo attraverso – ma guardate un po’! – la lettura attenta e concentrata. Non che Pavese si divertisse a comporre enigmi, ma sapeva anche quanto poco facesse bene all’intelletto dei suoi concittadini una pappa già bell’e pronta e solo da ingurgitare. La storia prende piede da una rottura dell’equilibrio spesso non evidente e poco esplicita. Semplicemente, il protagonista o più spesso le protagoniste, devono fare i conti con un determinato aspetto della propria routine. In La bella estate, Ginia deve affrontare il vuoto di una vita di campagna colorata da brevi sprazzi di gioia. Ha un fratello maggiore che lavora di continuo e vede poco, il tempo delle scorribande fanciullesche è finito e le sensazioni di quest’ultima infanzia che si allontana lasciano su di lei l’impronta di un mondo adulto che non vuole, ne saprebbe, ancora abitare. Un’amica la introduce nel mondo delle pose, dei pittori e dell’esposizione del sé. Cosa cambia tra il lavorare annoiate dietro ad un bancone svilendo il proprio tempo a furia di ripetizioni e mancanza di stimoli significativi e il mettere in mostra qualcosa di cui, sotto sotto, si è anche fiere? Perché ripudiare la dimensione corporea, la prima grande alleata nella lotta contro il decadimento di tutte le cose? Cosa Ginia desideri davvero è tutto da scoprire, ma c’è una cosa che la contraddistingue pur nella sua meccanica ricerca della felicità: il bisogno di sentirsi viva.
Su Il diavolo in collina si potrebbe dir tanto eppure, per evitare di ammorbare il vostro occhio caritatevole, sarò parco di periodi e spiegazioni. Essere benestanti porta necessariamente alla serenitate animi di latina memoria? Potersi permettere una cameriera personale, una governante e un giardiniere contemporaneamente, quindi evitare di svolgere le faccende comuni che tolgono tempo alla libertà d’essere, è ciò di cui si ha bisogno per non cadere nella trappola della privazione di senso generale? Da grandi ricchezze derivano grandi pensieri, scriverei io sulla sabbia per il timore che qualcuno possa leggere le mie parole. Ma Poli, personaggio singolare del romanzo, sembra insegnarci qualcosa di molto importante: la felicità è un’invenzione del consumismo e della mania occidentale di avere, dimostrare di essere e comandare. Non c’è obolo che tenga, sesterzio che corrompa o dracma che compri, quando sul piatto della bilancia ci sono da una parte i compromessi del vivere in comune e dall’altra la bruciante consapevolezza di amare-odiare-disgustare … in pratica di essere umani.
E questo bisogno di scintille, a volte, determina la necessità di fare scelte difficili oppure di lasciarsi andare.

E il terzo romanzo dove è finito? Chissà.

Photo by Mateo Giraud

Una replica a “La pozzanghera dell’individualità”

  1. “determina la necessità di fare scelte difficili oppure di lasciarsi andare.” Ma quel “lasciarsi andare” talvolta è la scelta più difficile.
    Per il resto, le “copertine” sono basilari, ma è il contenuto a dar l’importante differenza

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