La mussola è un tessuto molto leggero in armatura tela e a trama molto rada. Fu introdotta in Europa dall’Asia nel XVII secolo: il suo nome deriva dalla città di Mosul, sulle rive del Tigri, dove gli europei la incontrarono la prima volta; ma la sua origine è nella città di Dacca, in Bangladesh.
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La conoscenza è come un coltellino svizzero. È composta da vari strumenti che possono essere utilizzati nei modi più diversi, è pratica da portare con sé e, a volte, frugando in simpatiche tasche mentali, la si incontra con le dita e ci si domanda “ma tu, esattamente, cosa ci fai qui, a cosa servi?”.
La gnoseologia è quella dottrina filosofica che studia il problema della conoscenza. Cos’è, innanzitutto, la conoscenza? Quali sono i suoi limiti e confini? È un’astrazione puramente umana oppure è riscontrabile in altre forme di vita più o meno senzienti? Sono tante le domande che circondano questa disciplina, come è scontato che sia quando si tratta di filosofia, e i dubbi posti da questi cavillosi punti interrogativi non sono facili da sciogliere. Non voglio addentrarmi in complicatissime disamine critiche relative all’origine di questa borsetta magica di Mary Poppins, bensì trattare un suo singolo aspetto: il valore pratico della teoresi.
Sembrano paroloni da manuali barbosi, me ne rendo conto, ma seguitemi nel ragionamento. Da che ho memoria penso questo: Sapere la risposta di un problema non significa necessariamente essere in grado di risolverlo. C’è da dire di più, avendo io approcciato la fisica nei teneri anni delle scuole superiori mi è stato insegnato che non solo non basta avere il risultato per tornare alla fonte del fiume, ma che, addirittura, non basta nemmeno conoscere le formule per ricostruire perfettamente il percorso che porterà alla soluzione del problema. Avere memoria di un procedimento e intuirne i componenti non significa saperlo applicare. Magari sappiamo che Luca ha messo in forno una torta che pesa circa un chilo e mezzo, che il termostato del forno segna i centottanta gradi celsius e che, in base a quanto emerge dalla lettura frettolosa di una ricetta online, il tempo di cottura dovrebbe aggirarsi attorno ai quaranta-quarantacinque minuti. Queste informazioni sono fresche e attive nella mente del nostro amico, eppure, per qualche scherzo nefasto del destino, la torta viene tanto male da far sì che la nonna, amante dei dolci e dei nipoti esattamente in questo ordine, si rifiuta anche solo di annusarla. Perché è successo ciò? Perché, al di fuori delle pagine linde e plastificate degli eserciziari di fisica, la realtà prevede molte più variabili le quali, spesso, sono impredicibili. E se Luca avesse deciso di sostituire alla farina per dolci la comune farina di grano tenero 00 immaginando non ci fossero differenze sostanziali? E se il termostato del forno fosse rotto da circa tre anni a causa di uno sbalzo di corrente che gli fa segnare venti gradi in più del dovuto? E se, diciamo noi scettici dell’Internet, la ricetta fosse stata pensata per non permettere di riprodurre fedelmente il gusto immaginato con il fine di comprare un praticissimo libro scritto di pugno dallo stesso presunto pasticcere che ha inizialmente somministrato la ricetta sfortunata? I manuali delle istruzioni rimangono degli ammennicoli molto utili e carini, ma, ahimè, non possono coprire tutte le disavventure che il destino prevede dal suo scranno sarcastico.
Possiamo quindi affermare con relativa certezza che non esistono formule inattaccabili e perfette al millesimo e che, soprattutto, non esistono ricette vincenti per esaudire ogni proprio ghiribizzo. Sarebbe come affidarsi a quei valenti giovanotti e giovanotte che sperano di tirar su un po’ di grana vendendo ad altri metodi di investimento non truffaldini quanto affidati puramente alla casualità più sfrenata. Non so voi come la pensiate in merito, ma se qualcuno mi si avvicinasse dichiarando di voler solo condividere la scoperta del benessere eterno, io stringerei le chiappe, armerei il pugno con le chiavi di casa e scapperei nella direzione opposta con la velocità di Speedy Gonzales.
Tra donne sole è il romanzo di Pavese che chiude la trilogia intitolata La bella estate. Di tutti i ragionamenti che si potrebbero fare in merito a questo lavoro gradevolissimo ce ne sono due che hanno particolarmente attirato la mia attenzione.
La protagonista è una donna in carriera dalle umili origini. È nata e cresciuta a Torino, città che negli anni Trenta aveva conosciuto un fervido movimento intellettuale ben presto confluito nell’antifascismo, nelle carceri, sottoterra e sulle poltrone che contano delle case editrici che avrebbero dominato il panorama culturale del secondo dopoguerra. In questo Piemonte dal sapore regale e borghese, nobile e imprenditoriale, si muove una giovane trentacinquenne circa – che si percepisce già in piena decadenza, figuratevi – che ha costruito da sé un posto nel grande mondo dell’iniziativa personale. Partita da una dimensione periferica si ritrova a gestire l’apertura di un negozio di moda nel cuore della bella città della Mole Antonelliana. Qui, spaesata nella sua terra natìa, incontra la Torino da bene e da bere, quel gruppo sociale formato da nobili di rango ormai straccioni, facoltosi industriali in perpetua ascesa e pochi operai specializzati che sanno quanto il loro lavoro sia importante e sanno altresì quanto poco il loro contributo venga riconosciuto. La protagonista di questa storia della mussolina moderna – così definisco i romanzi che parlano della società aristocratica, dei suoi vezzi e caratteristiche, un po’ alla Jane Austen per intenderci – disprezza la fatua e vacua improduttività dei privilegiati. Li trova pigri, accidiosi e poco interessanti. Sono esseri che volteggiano nelle sale da ballo con la testa sgombra di pensieri, come se la vita altro non fosse che sentirsi continuamente leggeri. Sono farfalle, poiché variopinti e graziosi, che viste da vicino scoprono il loro essere insetti come tanti altri, quindi bitorzoluti, pelosi e vagamente sgraziati. Eppure, nonostante il ribrezzo che prova nei confronti di questi parassiti d’alto bordo, si accompagna alle giovani dame per ammazzare le attese. Il negozio viene costruito a rilento, le amicizie non decollano e l’estraneità del personaggio nei confronti di tutto e tutti raggiunge picchi da alieno in terra straniera. Inani i tentativi di stabilire un contatto, inani anche i gesti che riempiono le giornate. Ed ecco che, dal nulla, un tentato suicidio smuove le acque. Una giovane ragazza – ma stavolta giovane sul serio a detta del narratore! – prova a togliersi la vita ingerendo una dose eccessiva di sonnifero. La scena è raccapricciante, c’è sangue ovunque, interiora che … ovviamente no, è tutto pulito, asettico, ospedaliero. C’è un corpo su una barella, un capannello di curiosi e tanto dovrebbe bastare a Dioniso per il suo intrattenimento. Tutti cercano di capire il movente di un’azione tanto sconsiderata. Ma come, ci troviamo di fronte ad una rampolla di stirpe, dal pedigree immacolato, come può lei attentare alla vita e tout court a tanta fortuna piovuta dal cielo? Può eccome, perché la stessa vacuità notata dalla protagonista nel suo abitare l’alta società torinese è ciò che la conduce sulla via della perdizione. Ma è di perdizione che stiamo parlando? In un momento non esattamente esaltante del romanzo, un personaggio maschile si avvicina alla protagonista e le fa presente che lei, al pari di tutti gli esseri umani, ha dei pregiudizi molto radicati. Dei bias, come si direbbe oggi. Ebbene sì, la selfmade woman, la ragazza sprint che ha riscattato il suo nome entrando di diritto nelle sale che contano, disprezza il privilegio immotivato, schifa i mantenuti e gli arricchiti per motivi esterni a quelli lavorativi. E come può trovarsi a suo agio con i suoi clienti, che altri non sono se non coloro che possono permettersi la sua firma strabiliante?
Sul fuoco, anzi a bagnomaria, c’è però altro. Si convince che il fallito gesto definitivo della ragazza sia stato motivato da un impulso positivo e non negativo. Come a dire che quel suicidio fosse pensato per liberarsi da una condizione di cattività dorata. Questa consapevolezza la turba e la irretisce al contempo. Non è forse parte integrante del problema il suo atteggiamento connivente e accomodante nei confronti delle pretese delle nobili e petulanti nuove amiche? Non è dannoso il suo tentare di riportare in società questa ragazza turbata, triste e malinconica che ha cercato una volta per tutte di dare un taglio alle sciocche magniloquenze di chi si reputa migliore solo per eredità di nascita?
Come se non bastasse, il quadro viene complicato da una frase scoccata a tradimento contro la protagonista. Lei, così altera e sicura del proprio, non si sta comportando come fanno tutte loro, le vuote bamboline che tanto disprezza? E, soprattutto, adesso che le conosce, che ne ha portato alla luce i moventi più oscuri, cosa può fare? Come si comporterà d’ora in avanti? Rifiuterà quel codice o lo farà proprio? Inizierà a disprezzarsi oppure cambierà drasticamente idea?
Il romanzo dice e non dice, sta di fatto che, alla fine, la giovane ritenta l’indicibile e, per sua (s)fortuna, riesce nell’intento.
Ai posteri l’ardua sentenza.
Photo by Wendy Dekker