Ho l’impressione che quest’oggi andrò a ruota libera, senza concedere troppa attenzione alla forma e al galateo. È un pensiero che mi è venuto in mente istintivamente e ancora non so se reggerà il confronto con la realtà e la mia monomania da perfettino stacanovista gnegnegne, ma sono abbastanza lucido da poter mettere le mani avanti e scusarmi per eventuali eccessi.
Immagino che questo contributo all’inquinamento informatico che oso a volte definire articoletti giungerà sul desco elettronico di coloro i quali lo leggeranno ai primi di Aprile o giù di lì. In narratologia si distingue il tempo del racconto dal tempo della storia: il primo è il lasso di tempo che il lettore impiega per leggere una determinata sequenza narrativa, il secondo è invece il tempo che si presuppone scorra all’interno della storia narrata. Ebbene, in questo momento ci troviamo in un terzo tempo, diverso da quelli che ho appena nominato. Siamo in quel terzo saltello che nel basket – nella pallacanestro per i più vetusti – conferisce lo slancio necessario per imprimere alla sfera, al bolide d’arancio vestito, alla palla, l’effetto desiderato per imbucarla nel canestro. Questo tempo è … il presente. Ebbene sì, il mio presente è situato circa a metà Marzo. Si festeggia l’avvento della primavera, grossi sconti pullulano nei carrelli della spesa e io vi parlo in differita. So che non è niente di speciale, del resto la società dell’informazione e dello spettacolo ci ha abituati a fruire la stessa vita in ritardo, in un secondo istante, sostanzialmente in streaming. Però ecco, tenete presente che quello che leggete è sempre il frutto di una riflessione meditata nel tempo, che esplode in un dato attimo e che voi non vedrete mai. Ovviamente, come è giusto fare, si simula questa esplosione, la si immagina, si finge di essere spettatori della detonazione, ma non è così, non è mai così. Ci troviamo di fronte ad uno dei tanti commi del patto narrativo. Io, in questo caso l’Autore burlone che cerca in tutti i modi di indispettirvi, condivido con voi, Lettori che si figurano Ideali per non cedere allo sconforto, lo spazio del Testo e vi do la possibilità di ricrearlo a piacimento, così da, nei fatti, riscriverlo. È questo un abuso? Una forma di violenza nei confronti dell’intentio auctoris? Credo di sì e anche di no. Voi potreste vedere nelle mie parole una forma di attacco, un arroccamento difensivo, anche, perché no, un attentato dinamitardo alle norme del buoncostume e io non avrei alcun diritto – diciamolo meglio, modo – di intervenire. Potreste creare nella vostra mente la sagoma incorporea di questo sgorbietto da strapazzo che gioca con la vostra attenzione, oppure rispettare e costruire con l’alito della fantasia un tizio dall’età indecifrata che un po’ finge intelletto e un po’ sciatta e ridanciana ignoranza. Potreste intuire dietro la mia ironia un fondo di seriosa verità – non seria, attenzione, ma seriosa – oppure sbugiardare la mia sicumera terminologica combattendo sul mio stesso terreno, quello del linguaggio da azzeccagarbugli dossiano che ahi-signora-mia quanta hybris, quanta tracotanza, quale eccessiva arroganza.
(Adoro il dettato franto e analogico da schizofrenico. Lo definisco “discorso nevrotico”, ma dubito che finirà mai nei libri di testo).
Partendo dalla base, dal brodo primordiale e giù a scendere, posso affermare che per voi non sono che la postilla sgualcita di una pagina piegata mentre si beve il caffè o si consuma la titanomachia sul gabinetto di casa. Non è importante che io esista per voi, non è necessario. Così come è del tutto improduttivo il mio continuare a battere a macchina queste lettere sulla tastiera del computer. Queste, non tutte, che sennò dovrei rivedere l’intera pianta dell’edificio della mia esistenza. Non è importante perché non vi sto lasciando niente, probabilmente, se non l’impressione di un delirio. Magari vi state chiedendo da cosa è animato. Se sia successo qualcosa nella mia biografia tale da giustificare un simile sproloquio. Ancora una volta, con buona pace della critica psicoanalitica, è statisticamente probabile che mi stia leggendo da solo.
È arrivato quello spiacevole momento in cui bisogna tirare le fila del discorso così da scoprire se almeno un nodo s’è creato. Sintetizziamo le conquiste odierne.
Non mi conoscete (tanto che potrei addirittura essere una versione difettosa di ChatGPT). Io non conosco voi (tanto che potreste essere bot prezzolati e stipendiati dalla Cina, visto che a volte ricevo visualizzazioni sospette). Il tempo per vivere spensieratamente è limitato (e io lo sfrutto così, razza di mentecatto). Ci sono pochi elementi contestuali per interpretare con affidabile precisione quel che vado cianciando (cha-cha-cha, ma di Garibaldi, cha-cha-cha / è per pochi, domando scusa).
Quindi, cosa diavolo ci facciamo qui? Cos’è che stiamo facendo esattamente?
Proverò a rispondere a questa domanda buttando nella mischia solo un paio di spunti.
Primus inter pares: Stiamo condividendo qualcosa. Qualcosa a cui daremo un valore e un senso strada facendo, che costruiamo nel tempo e nella riflessione, qualcosa che, a rigor di logica, pur non avendo peso, siamo in grado di rendere ora un macigno, ora una piuma. E lo stiamo condividendo perché io ho voglia di aprire un canale, un contatto, e voi avete tutta l’intenzione di mantenerlo aperto. Ma quale è il motivo profondo, limaccioso e palustre che ci spinge a comportarci così? La speranza che ci lasci qualcosa, che imprima la sua orma da qualche parte nella nostra vita, sul nostro corpo, sui nostri zebedei preziosissimi. Il terrore di un produttore di cazzate, di ciance, di riflessioni filosofiche, di barzellette, di castronerie, di lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi (ringraziate Palazzeschi per le liste di sinonimi) è quello di suscitare indifferenza. Non di rimanere anonimo, quello è del tutto secondario. A me, ad esempio, della fama non interessa nulla. Preferirei di gran lunga avere mille lettori assidui che non mi danno un centesimo a tre mecenati ricchissimi che mi riempiono di soldi. Eppure, l’idea che tutto quel che faccio non sia altro che l’ennesimo pezzo, l’ennesimo byte occupato, l’ennesimo disperato S.O.S. egoriferito, è svilente quanto venir schiacciati da un gigante che nemmeno si accorge di aver nella pianta del piede un esserino incastrato, penzolante e pateticuccio. La comunicazione non deve essere mai fine a sé stessa. Conosco le massime di McLuhan, prima che qualche intellettuale mi dia dello scemo, ma resto della mia opinione. Uno scambio che non lascia nulla è inerte, idiota, sciocco, vuoto, inane, sterile e, peccato mortale per quanto mi riguarda, n-o-i-o-s-o.
Last but not least: Guardate The Whale. Ragionate assieme al protagonista sul significato del tema che legge quando deve tranquillizzarsi. Arrivati al finale esigete sincerità, come lui la domanda ai suoi studenti. Ragionate di nuovo sul saggio. Datevi una risposta vera, a costo di guardarvi in faccia e sospirare “che merda”.
Giunti fin qui vi confesserò una cosa: volevo parlare di tutt’altro. O meglio, quello che doveva essere un preambolo è diventato il corpo dell’argomentazione. Visto che non so dedicare spazio a quel che mi servirebbe, ma solo a ciò che reputo essenziale, eccovi una carrellata di dati che ignorerete.
Poco più di un anno fa è uscito il mio primo romanzo, Foglie di cotone, auto-pubblicato e inserito su Amazon con il prezzo minore disponibile.
Ovviamente l’hanno comprato in pochi, circa un’ottantina di persone, e di queste l’hanno letto forse in cinque. Di queste ottanta, una buona settantina l’ha preso quando ho inserito l’opzione temporanea del portale per “vendere” il libro gratuitamente. Ogni volta che posso io regalo i miei libri, ché del profitto me ne sbatto come le uova per una frittata. Ma numeri così bassi significano una cosa. Che quella famosa indifferenza non l’ho ancora scalfita. Che lancio bottiglie di vetro nel grande mare senza raggiungere nessuno. Che non lascio niente, né orme né scontrini né una risata o una lacrima.
Mi chiedo se questa pagina avrà lo stesso effetto, ossia quello di sbocconcellare una buona fetta del mio tempo e di buttarlo via, al vento, non verso le persone, bensì in direzione del buco nero del passato.
Non voglio lasciarvi con una nota dolente.
È sempre divertente buttar tempo così, mi fa sentire improduttivamente sereno.
Photo by Pawel Furman
4 risposte a “Il discorso (folle) del re (nevrotico)”
Ho letto attentamente il post, ma sinceramente “il punto” mi è sfuggito. Dici delle cose, poi altre che in un certo modo contraddicono quello che hai detto prima.
Penso che il punto sia un altro, cioè il scrivere per te stesso o il scrivere per gli altri. Se scrivi per te stesso lo fai per un bisogno, per mettere nero su bianco i tuoi pensieri, quindi che quello che scrivi venga letto da altri oppure no è indifferente. Se invece per gli altri, per cercare consensi allora è tutto diverso. Buon pomeriggio.
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A volte il flusso di coscienza è più forte della razionalità e travolge il messaggio che mi ero prefisso di comunicare. Lo trovo fuorviante, ma anche divertente. Per quanto riguarda la scrittura posso dirti che credo esista una zona grigia che unisce le due ispirazioni di cui parli tu. Una scrittura pensata esclusivamente per sé stessi non andrebbe divulgata, alla stregua di un diario personale, mentre una scrittura pensata esclusivamente per ottenere consensi immagino rischi di diventare faziosa e vanamente pomposa. Io mi auguro che esista uno spazietto tra le due, un interstizio dove si scrive per sé stessi e anche per condividere un’esperienza, un pensiero, un’idea. Per il puro gusto di entrare in relazione.
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Io ho letto fino in fondo, questo per dirti che le persone vere ci sono oltre lo schermo e che possono anche trovare interessante ciò che dici, come lo dici.
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Questa è sempre una bella notizia da ricevere! Un distillato di sana autostima insomma
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