La verità, più che un dato oggettivo, è un ideale da perseguire. La si potrebbe anche definire una ideologia, ma correntemente questo termine viene disprezzato quanto l’acidità di stomaco e qualsivoglia forma di autorevolezza.
Non si può custodire nel palmo delle proprie mani la verità. È sfuggente ed elusiva, sebbene sia ancorata alla realtà da alcuni irrefutabili indizi. Non è possibile affermare che un dato evento non sia accaduto in un preciso istante, soprattutto se si hanno abbastanza testimonianze per suffragare la sua attendibilità. Ciononostante, è più che possibile manipolare la percezione delle azioni, la loro metabolizzazione e, infine, comunicazione. La verità presenta la curiosa caratteristica d’essere al contempo fortemente oggettiva e peculiarmente soggettiva. È, sebbene parzialmente, un costrutto elaborato nell’interazione tra più individui. Si sostanzia di opinioni, idee, pregiudizi, studio e palesi manomissioni. Dire che un omicidio è stato efferato significa sostenere una posizione netta e determinata sull’accadimento. Al contrario, perdersi in una serie interminabile di giravolte pirotecniche per argomentare la libertà di compiere qualunque tipo di gesto, anche i più estremi, per il solo fatto di stare al mondo, denota, oltre alla malizia dell’emittente, la sua sostanziale malafede mista a insicurezza patologica. Narrare un’azione, descrivere una sensazione e compiere un lavoro di sintesi accurata per divulgare un sapere necessario sono operazioni che necessitano di passare al vaglio dell’ego. Un ego inteso come quel sistema di valori, esperienze e predisposizioni genetiche che costituiscono il nocciolo duro dell’identità umana. È, per metterla in altri termini, la vecchia questione del punto di vista. La verità, al mutare del sistema di riferimento, assume connotati a volte diametralmente opposti. Un’aggressione può così assumere i caratteri di una difesa, un furto quelli di una debita espropriazione e la menzogna quelli di un necessario processo di indoramento della proverbiale pillola. Il fatto, nudo e crudo nella sua obiettività storica, viene così vestito, coperto, velato e preparato per il gran debutto nel ballo di fine anno. L’evento così caricato di indumenti confezionati ad hoc per l’occasione viene portato in scena solleticando il desiderio d’apparenza più di quello che, alle volte, spingerebbe ad approfondire. La verità si sfalda, si ricostruisce e si perpetua in forma singolare di continuo. I connotati del suo essere avvenuta vanno a confondersi con le aspettative di coloro che la ricevono e, nei fatti, modificano ancora e ancora. Ciò non significa che cercarla, o meglio, cacciarla e braccarla come una preda rara, sia aprioristicamente impossibile. Né v’è qualcosa di sbagliato in questa somma attività che unisce all’etica due ordigni che dalla dimensione sferica si trasformano in solidi cubici (perifrasi ammiccante per tutti coloro che, a ragione, sono stanchi di identificare il coraggio nei gioielli di famiglia maschili). Epistemologicamente, perché si discute di un metodo e non di una sostanza, appunto di un ideale in fieri e non di un dato, è necessario accettare la parziale arbitrarietà di ciò che definiamo vero. Considerare il parere di chicchessia, dalla personalità di spicco in quel campo allo spazzacamino vittoriano morto e sepolto nottetempo, inviolabile e sacro, sullo stile della falsa infallibilità papale, è il primo atto dinamitardo che delegittima la verità. Avere l’arroganza, la hybris – per darci un tono – di credere ciecamente in quel che si crede – bisticcio necessario che mi ha procurato un certo piacere – è un modo alquanto subdolo per affermare la propria superiorità rispetto a quello che si vorrebbe tutelare: la natura pura della verità. Dal momento in cui una informazione viene gestita dalla mente umana, la verità perde la sua innocenza strutturale. Non deve sembrare un discorso cattolico sul peccato originale, l’innocenza strutturale non è qui intesa come un valore necessariamente positivo. Sta di fatto che, appena quel che si reputa essere vero viene filtrato dall’ego di un qualsiasi individuo, la materia trattata si colora di tutte le sfumature messe in gioco dall’Io per intrepretarla.
La verità esiste? È necessario postular di sì.
La verità è invece accessibile? Questa è una domanda da porre a persone informate dei fatti, ma reputo che la mia opinione in merito sia piuttosto chiara.
Il decollo sta per avere luogo. L’aereo Pindaro – Follia è attualmente sulla pista. Libriamoci nel cielo.
Il caso Alaska Sanders, libro corposo di Joel Dicker, è un giallo ben confezionato che corrobora il genere con alcune decisive intrusioni da parte di una narrazione più esistenziale e ripiegata su sé stessa. Da una parte c’è la ricerca di un assassino abile e spregiudicato, dall’altra un protagonista che, lungi dal mettere da parte la propria vita personale per dedicarsi anima e corpo alla cattura del malfattore, riesce a perdersi nei meandri del suo passato e nelle aspirazioni che lo vorrebbero uomo di famiglia finalmente felice, sereno e in compagnia di una donna che sappia stimarlo e apprezzarlo. Il dilemma è ben chiaro fin dall’inizio. Marcus, quando ti deciderai a occuparti di te stesso? Quando smetterai di riparare gli oggetti che trovi sul ciglio della strada per allontanare il momento in cui tu, esatto, proprio tu, dovrai analizzare te stesso e fare un passo avanti nella vita? Enigma dalla difficile risoluzione, ben più arduo da sciogliere rispetto al cold case di Alaska Sanders, ragazza assassinata nel 1999. Eppure, questa indagine che si svolge a distanza di undici anni dal misfatto, mostra quanto la verità sia una dama dal palato fin troppo fine ed esigente. I personaggi si muovono sulla scena con precisione svizzera – darei un’occhiata alla biografia del buon Dicker – e gli indizi vengono portati all’attenzione del lettore al momento giusto, senza rovinare l’equilibrio tra le due parti che strutturano il romanzo. Tutto sembra avere una sua logica intrinseca. Moventi, prove schiaccianti, accuse e confessioni si avvicendano come se fosse l’iter naturale delle cose. Quando emerge un nuovo dettaglio, oppure si getta una luce nuova su un’informazione che già si possedeva, è come se il meccanismo dell’orologio si rimettesse in moto dopo aver perso qualche colpo. Quel che stupisce è la variegata serie di motivazioni e spiegazioni che circonda le persone coinvolte all’interno del caso. L’elemento che le unisce è uno: l’oggettivo omicidio di una giovane ragazza. Questa è la verità fattuale, oggettiva, che dà vita alla storia. Ma intorno ad essa cosa si costruisce? L’intera vita di una cittadina scossa dall’accaduto – che tanto ricorda il Maine di Stephen King – animata da azioni che singolarmente non saltano all’occhio mentre, al contrario, poste in sequenza, danno l’idea di quanto, effettivamente, gli esseri umani siano capaci di essere estranei a sé stessi e a quel che li circonda. Inciampi, false piste, errori grossolani, abbagli e frequenti colpi di scena caratterizzano lo svolgimento della fabula, sebbene tutto ciò sia previsto dalle regole del thriller, ma quel che rimane di prezioso nelle mani del lettore è la sensazione d’impotenza nei confronti della manipolazione della verità, questa amica che si lascia condizionare troppo facilmente da ogni tipo di stimolo.
Photo by Steve Sharp