Cosa spinge una persona a trascorrere del tempo a inventare una storia di fantasia oppure a ripercorrere fatti e avvenimenti realmente accaduti?
Innanzitutto, la volontà di non fermarsi alla superficie. Può essere bella la copertina di un libro e così il cappuccio di un monaco. Ciononostante, è l’interno, la sostanza, a contare davvero. Il kaki è un ottimo esempio: dall’esterno sembra flaccido, è rossastro e butterato di nero, il suo ciuffo è rinsecchito e chiede, supplice, di essere staccato con un gesto fermo della mano. Non ha una bella cera e non ispira fiducia. Se si ha difficoltà con la frutta in generale ecco che il kaki sarà uno dei primi bersagli di un’arringa senza fine. Tuttavia, è delizioso. Zuccherino, dolce, praticamente un dessert sotto mentite spoglie. Sporca, questo è vero, e se non si presta la dovuta attenzione diventa uno spettacolo orrendo osservare qualcuno alle prese con la sua consumazione. Eppure, soddisfa le papille gustative e lo stomaco, la fantasia e l’ora della pausa pomeridiana.
Scrivere è quindi come gustarsi un kaki? A essere elastici e tolleranti, sì.
La scrittura creativa serve anche per stimolare la riflessione, il consolidamento dei ricordi e la capacità di problem solving. Simulare scenari all’interno della propria mente consente la formazione di reti neurali, o un loro irrobustimento, in grado di essere attivate nel momento del bisogno. L’immaginazione, diversamente da quanto si può credere, ha un’utilità pratica non secondaria. A volte, dove un individuo pragmatico vede due costoni di roccia separati da un baratro, una persona creativa costruisce con gli occhi un ponte.
Un testo narrativo è un testo scritto con l’intenzione di raccontare qualcosa, è fine a sé stesso. Una storia, una testimonianza, un ricordo, anche quella volta in cui, in gita, un compagno di classe ti ha attaccato per le mutande ad un ramo. Svolge e narra delle azioni nel tempo. Il suo scopo è quello di intrattenere ed emozionare. Una narrazione incapace di smuovere qualcosa nelle viscere del lettore è difettosa, monca, manchevole di qualche componente fondamentale. Per questo, si può avvalere di molteplici artifici con il fine di catturare l’attenzione, quindi l’intelletto, e l’emotività, quindi la pancia-cuore.
Ripercorrere degli eventi non significa elencarli e contarli sulla pagina come i grammi di verdura da soppesare sulla bilancia del supermercato. Significa, al contrario, conferire loro credibilità, coerenza e interesse. Ed è per questo motivo che è fondamentale conoscere in partenza, a priori, di cosa si vuole parlare – ecco che tornano, l’idea centrale e sua figlia la frase chiave! – come si vuole organizzare il testo, da quale punto di vista e raccontato da chi. Anche la barzelletta più spassosa, prendiamo ad esempio il repertorio sterminato di buonanima Proietti, raccontata con titubanza e confusione risulta uno strazio. Un po’ come far fronte a dei gatti stonati sul cornicione sotto casa. Viceversa, una trama mediocre, un intrigo di poco spessore, può diventare coinvolgente se architettato con perizia. L’ideale, facile a dirsi, è che le due componenti vadano di pari passo; quindi, che forma e sostanza siano di alto valore. Per dirla con il Croce mentre discuteva del De Sanctis:
La forma non è a priori, non è qualcosa che sta da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste o apparenza o aggiunto di esso; anzi essa è generata dal contenuto, attivo nella mente dell’artista: tal contenuto, tal forma.
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale: Teorie e storia.
Per raccontare un avvenimento bisogna operare una selezione: non tutti i fatti sono importanti ai fini dell’obiettivo prefisso. Alcuni, qualora presenti, potrebbero rallentare la narrazione e generare ambiguità. Tutto quel che appare, in un modo o nell’altro, deve essere pertinente e giustificato. Ciò che è superfluo darà solo l’impressione di voler “far brodo” per mancanza di abilità o ispirazione. L’idea centrale deve essere espressa, o lasciata trasparire, con forza e deve lasciare qualcosa al lettore. In poche parole, deve essere organica, completa e stimolante.
Dopo aver evidenziato il proprio tema, è necessario organizzarlo.
Chi dovrà leggerlo e, soprattutto, perché? Una pagina di diario necessita di artifici diversi rispetto ad un racconto da inviare per un concorso letterario.
Quale effetto si vuole ottenere? Deve stupire, irretire, spaventare, commuovere, divertire? È utile, a questo scopo, la compilazione di liste di parole appartenenti al campo semantico in tono con la narrazione. Termini che facciano capo al mondo dell’orrore per un testo che deve terrorizzare e ridicoli, ridanciani e comici per uno che deve far ridere.
Chi è che, all’interno dell’opera, registra i fatti? Un narratore esterno (in taluni casi l’autore stesso) o un narratore interno alla vicenda? Quanto sa di quel che sta accadendo? È onnisciente (quindi sa tutto), è coinvolto in prima persona (quindi sa quel che sanno i personaggi in scena) oppure, sfruttando la focalizzazione esterna, ne sa meno di tutti quanti?
Porsi queste domande è fondamentale per 1) avere ben chiaro ciò che si vuole dire e 2) giocare con la distribuzione delle informazioni al fine di coinvolgere il lettore. Spesso, i resoconti sono meno avvincenti di una storia caratterizzata da un uso sapiente di flashback – il retrolampo di Fascisti su Marte – flashforward (l’anticipazione) o di ellissi (vuoti narrativi colmati dal contesto o da informazioni ancora da ottenere).
Infine, è bene gettare un occhio sul lessico e sullo stile. Un racconto giallo, ad esempio, deve creare un’atmosfera ben definita. Ecco spuntare assassini nell’ombra, lame prezzolate, giacche di tweed, pipe e tabacco, montgomery da investigatore e ancora banchine immerse nella nebbia, strade secondarie senza un lampione e gli immancabili intrecci amorosi che caratterizzano i colpi di scena più utilizzati. Come esprimere tutto ciò? Con uno stile più frammentato, ossia povero di subordinate e ricco di frasi nominali ad alto impatto emotivo, oppure con uno stile più coeso, al contrario arioso, in grado di stimolare la riflessione e ricco di coordinate e subordinate?
Dopo aver risposto a tutte queste domande sentitevi liberi di gustare il vostro kaki.
Photo by Karolin Baitinger
16 risposte a “Narrare è come gustarsi un kaki”
Domande tutte interessanti!
kaki però penso che lo mangerei prima… e che buono! Dolce dolce.
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Siamo colpevoli in due allora! Prima il kaki e poi il dovere
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ahah… eh sì, se no ci deconcentra.
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Chissà, magari scriviamo solo per avere abbastanza soldi da comprare altri kaki … ma shh, meglio non dirlo in giro
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Paragone molto originale e colorito, il tema affrontato è molto impegnativo, la tua trattazione è coinvolgente e approfondita. Il difficile è trovare una propria strada nell’insieme di insegnamenti e consigli. Non è un cirtica o una confutazione alle tue tesi, ma semplicemente una visione realistica dell’ardua impresa affrontata da ogni aspirante scrittore.
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Sono d’accordo, quelli che ho riassunto nel testo sono solo alcuni stratagemmi per “organizzare” il lavoro. Il bello della scrittura è anche avvalersi della propria ispirazione senza passare per certi artifici retorici. Mettiamola così, è bene conoscere alcuni fondamentali, ma è meglio, alla fine, scegliere quelli che più si adattano al proprio stile personale
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Io e l’altra autrice del blog “Il Mondo Positivo” forse andiamo d’accordo proprio per questo! Ci mettiamo ore a scrivere un post pur avendo idee simili sulle storie (almeno quelle di fantasia) ma come approcci siamo agli antipodi: nella scrittura, e nei kaki!
Non scherzo, la prova del kaki è successa quando io e lei ci eravamo appena incontrati di persona nel 2019:
Non avevo mai incontrato una persona non vedente in vita mia e mi riempivo la testa di domande che non diventavano mai voce, onde evitare di essere inopportuno. Mio marito, ancora più ansioso di me, invece addirittura cercava con lo smartphone testimonianze su come una persona priva della vista gestisce la frutta. Il tutto in silenzio e davanti a lei, e alla cassetta dei kaki! Finché mi ha chiesto “Gifter io ne prendo uno e me lo mangio!”
Noi ci siamo alzati come siluri e le abbiamo portato un piatto fondo, una tazza e un cucchiaino perché noi mangiamo così i kaki.
Le abbiamo anche chiesto se avesse bisogno di una mano a togliere via “il culo” intendendo la parte dura e rinsecchita.
Lei si è messa a ridere e ha detto: “il kaki è come certe persone, ha la testa da buttar via. Ma voi mi dimostrate che di certe persone invece neanche il culo è da scartare, è così anche nel kaki”.
Noi due a guardarci con un punto di domanda grosso come una casa mentre lei ha preso il frutto e senza considerare tazza o cucchiaino che le avevo posato accanto al piatto, l’ha capovolto con “la testa” a fare da base (da culo), ha dato un morso alla buccia e con le labbra a tapiro si è succhiata tutto l’interno! Sempre con le dita sulla buccia sottile di fuori e tenendosi la parte dura come riferimento per non rompere la buccia sconfinando dalla portata delle labbra.
Risultato? Lei non si è sporcata e mentre noi con tazze e cucchiai, distratti a guardare lei, abbiamo combinato un disastro.
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Sono sinceramente colpito da questo aneddoto. Che storia dolce e interessante! Ti ringrazio davvero per averlo condiviso, mi ha strappato più di un sorriso 🙂
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noi autoproclamati “normali” siamo troppo abituati a dare per scontato ciò che abbiamo (per primi gli occhi) e senza rendercene conto né volerlo trasferiamo i nostri limiti negli altri. Immaginiamo la nostra vita senza la vista o l’udito o qual si voglia condizione di “diversità” pensando come reagiremmo al posto di quella persona in quella situazione, senza comprendere che gli altri hanno le proprie strategie, che però non c’entrano affatto con gli stereotipi-stronzata tipo “vede col cuore” o “sesto senso”.
Non mi è stato difficile buttare gli stereotipi nella spazzatura comunque, visto che per primo ho passato un’adolescenza a dire “mamma mia se mi scoprissi l’HIV addosso ammazzerei di botte chi me l’ha passato e poi mi butterei da un ponte. Due pericoli pubblici in meno”.
Poi quando mi ci sono trovato dentro davvero, non è successo né l’uno né l’altro e siamo tutti e due ancora in questo mondo, vivi vegeti e felicemente sposati (ognuno col proprio marito, non tra di noi!)
Fino a quando una situazione non ti si presenta davanti al muso nuda e cruda, dall’esterno non la capirai mai! Come il kaki. A prenderlo in mano diresti “per carità questa roba dura sopra e mollacciona dentro puzzerà!” E invece… Provare per credere. Oppure un altro frutto dall’aspetto inquietante è il passion fruit lo apri a metà e ti trovi questa roba gelatinosa che sembra… Non mi far dire porcherie.
Kaki dolcissimo a patto che non lo mangi quando la maturazione è incompleta perché se no ti lega la bocca! Anche lì ti può ingannare: è bello sodo quando è “indietro” ed è cattivo mentre se è molliccio (non troppo) è giusto.
Sai che mi stai facendo venire un’idea per un eventuale nuovo logo del blog?
Visto che il Mondo Positivo è un’ambientazione opposta al reale, anche il kaki è un frutto al contrario: molliccio quand’è buono e cattivo quand’è sodo, la testa è in realtà il culo…
Un bel kaki simil-mappamondo con un bel segno biohazard, il “più” e la scritta “mondo positivo” al posto della testa/culo/rinsecchito ci siamo capiti!
Lancio l’idea alla collega -che tanto non vede e non capisce di loghi- ma ha degli amici in grado di elaborare lo spunto e tramutarlo in grafica.
Sempre lei, dice “mi sta antipatico come un caco crudo” (un kaki acerbo) o un fico crudo.
Anche quella è narrazione “show, don’t tell”:
“Strinsi la sua mano di lattice e mi presentai. Ma bastò una parola per capire di essere davanti a un kaki acerbo”.
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i motivi sono vari e vanno dalla rabbia alla grafomania al talento, il caco è così, se si rompe lascia macchie difficili da lavare
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poi quando cascano dall’albero e si spetasciano per terra scivoli peggio della banana.
E cosa dire di quegli affari gelatinosi fatti a forma di mandorla, che hanno dentro? Alcuni contengono il seme duro altri sono vuoti ma se a vederli e toccarli fanno impressione sono buoni anche loro.
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😀 fai come me, l’autunno/inverno scorso ne ho raccolti più di un centinaio ed erano buonissimi
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sperando che il marito di mamma non tagli l’albero! Curarlo sì ma tagliarlo perché? Appena tirati su sono una delizia
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e pure i loro frutti
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quello dicevo: prendi un caco maturo fresco dall’albero…
Ecco basta ho appena finito il pranzo e mi viene voglia pur non essendo stagione
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Macchie, tuttavia, raramente noiose!
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