Un segreto dei nostri

Guarda la parete incrostata di giallo. Qualcuno deve aver pensato fosse un colore piacevole alla vista. Sta di fatto che, nella parete, ci vede una parete. Un quadro richiama l’arte astratta, strizza l’occhiolino ai grandi classici del genere. La firma è sconosciuta e lui nemmeno ne saprebbe indicare le lettere. Posa lo sguardo sul tavolo. Ci sono un’agenda, un quadrato di carta igienica e un dinosauro sbilenco disegnato su un foglietto mezzo strappato. Ancora una volta, in essi vede solo quel che sono. Nulla di più e nulla di meno. Quel pensiero lo attrae, lo fissa al suo posto.
Si sta facendo sera, è meglio che si sbrighi.  

Con le dita affusolate tiene stretto un bicchiere colmo di birra. Inconsciamente, ruota il liquido ambrato. Muove il polso, la birra spumeggia, le bollicine sprizzano nell’aria l’odore del malto. Il muricciolo di finta pietra è scomodo. Subito fuori dal locale, a cavallo tra una rotonda e una galleria lunga circa dieci metri, osserva il semaforo sul cavalcavia. Sente le voci schiamazzare. Un giro di drink, una nuova ordinazione, il fruscio elegante della divisa della cameriera. Del resto, è un posto di classe.
Indossa la giacca. La camicia è stata ritirata quella mattina stessa dalla lavanderia. Ai piedi calza due stivaletti scamosciati da cui si intravedono i calzini fantasia. Stonano, considerato il rigore del completo. Ma ciò significa che quelle urla festose sono fuori luogo quanto il farfallino che ha nascosto nella borsa di una collega. Chissà cosa penserà quando, a casa, magari svuotando il surrogato di alligatore sul divano sfatto, troverà un papillon blu elettrico con sopra le allegre facce sorridenti di una schiera di rane.
L’aria è fresca. Gli entra nei polmoni bruciandogli la gola. Non ha preso, ma non per dimenticanza, la caramella per la tosse. Avrebbe dovuto, era sul mobile del bagno, eppure l’ha deliberatamente ignorata. Il pizzicore all’altezza della trachea viene placato solo da una generosa sorsata di birra. Una ragazza di massimo vent’anni – sciocco uomo, ne ha da poco compiuti diciassette – accarezza le foglie appuntite di una pianta di plastica. Sostiene con il palmo della mano quella decorazione pacchiana, la volge e rivolge in più direzioni. Un’amica le si accosta, le ride qualcosa nell’orecchio e le mette una mano sulla spalla. Le lascia un’impronta sul tessuto bianco, attillato e leggero. Nemmeno se ne accorge, sta già vomitando nel vaso che ha davanti.
«Che fai qua fuori?»
Si affaccia l’amico di un tempo, il regista della rimpatriata. Quello con cui condivideva la paura che, un giorno, i tram sarebbero stati definitivamente dichiarati fuori servizio e le aree per fumatori si sarebbero ridotte a enclave desertiche. Agita la mano. Non si guardano negli occhi.
«Che fai qui fuori?»
Ripete, con una piccola variazione. È così importante, questa variazione? Cosa si è trasformato nel passaggio tra la a e la i? Vuole che qualcuno, prima d’ogni altra cosa al mondo, glielo spieghi. Sta per domandarlo all’amico ma egli, evidentemente, vistosi ignorato per la seconda volta, è rientrato nel locale.
Gli indizi per convalidare una prova sono tre, non due, pensa. Tre, non due, potrei non averti sentito e basta. Invece tu ti sei allontanato, non ti sei accertato davvero di quel che stava succedendo, pensa ancora. Poi, le quattro frecce di una macchina attirano la sua attenzione. Perde il filo dei pensieri. Beve altra birra, non ne rimane ancora molta nel bicchiere. L’idea di entrare e chiederne un’altra lo nausea.
Un ragazzo sul sedile passeggiero di una utilitaria nera sventola in alto la corona d’alloro. Indossa un abito formale, blu scuro, deve essersi laureato quel giorno stesso. Lui alza il bicchiere consapevole che quel ragazzo, adesso, non sta certamente pensando al suo gesto cortese.
Esce lei, stavolta. Non si vede solo la testa, ma il corpo intero. Ha uno strano sguardo. Potrebbe essere ubriaca. Si attarda sul marciapiedi a contare gli spiccioli che, con la mano a formare una piccola conca, muove come ciottoli sul fondo di un acquario. Il riflesso del lampadario di cristallo le illumina le efelidi. Forse ha gli occhi lucidi, forse è un gioco di luce.
«Una boccata d’aria?»
Strana questa abitudine di incominciare una conversazione con una domanda. Quasi come se si stesse riprendendo il filo di un discorso interrotto da anni. È un incipit che lo spiazza, ma lo stupore lascia subito il posto alla quiete di una notte di festa vissuta da spettatore.
«Sì. Hanno alzato troppo la voce per i miei gusti.»
Fa una smorfia, cerca di essere divertente. L’altra sembra non capire. In realtà, non lo sta nemmeno guardando. Si siede sul muricciolo, osserva quel che osserva lui e sbuffa. Non capisce? Non approva? È sovrappensiero?
«L’hai sempre fatta questa cosa. Questa cosa di alzarti e andare via. Se una cosa non ti piaceva, se una cosa ti annoiava. Ti alzi e te ne vai.»
È convinta di quel che dice. Lui pensa che si stia sbagliando, ma non apre bocca.
«La bevi quella?»
Lei fa segno di no con la testa, esagerando il movimento. Travasa la birra di lei nel suo bicchiere. Ne beve un sorso e sospira.
«Da quando?»
Dopo quel quando si manifestano tanti microscopici puntini di sospensione. Non porta a compimento il pensiero. Non si è sentita di esprimerlo.
Rimangono in attesa per due minuti. Intanto, da dentro, scroscia una canzone uscita in quei mesi. L’amico di un tempo balla con una cravatta allacciata attorno alla fronte. La vecchia capoclasse gli stringe il gomito e ride, ride, ride di gusto, quasi a rovesciarsi sul pavimento.
«Devo dirti una cosa.»
«Una cosa?»
«Una cosa.»
Lui strizza gli occhi. Raggruppa le parole dal suo vocabolario striminzito e immerso nel malto, nelle praterie irlandesi, nei sogni di due trecce rosse, false e bellissime.
«È un segreto però. Un segreto dei nostri.»
Lei cambia gamba d’appoggio. Tira fuori una sigaretta dal pacchetto e la accende. Lui fissa quel puntino di fuoco ignorando tutto il resto.
«Abbiamo segreti, noi?»
Risponde dopo aver espirato il fumo. Quello va a perdersi nelle invisibili nuvole della notte.
«Chissà. Ma la cosa è questa. Che ne pensi del dolore?»
«Non hai detto. Hai domandato.»
«Fa lo stesso.»
«Non lo so. È troppo strana questa domanda. Tu, tu che ne pensi invece?»
Lui prende tempo, nasconde in tasca un anello dal valore infimo solo per rimetterselo al dito. Gli manca la bancarella nel giorno del mercato, la signora straniera che con accento pericolante lo convinceva sempre a spendere la paghetta. Ricorda il sole, nell’infanzia c’era sempre il sole. Dov’era la pioggia, nell’infanzia?
«A me fa orrore. Lo odio, mi fa schifo. Non è possibile ignorarlo, non dopo averlo visto. Non c’è indifferenza.»
Si chiede se abbia senso quel che sta dicendo.
«Andiamo a casa?»
Dice lei. Ma casa, quale casa? La serata non è ancora finita. La musica rigurgita dalle casse. Devono ancora portare la torta. No, questo non è vero, non è una festa di quel tipo, non ci saranno dolci. Quindi, cos’è che lei gli sta dicendo? Tanto vale ignorarla.
«Odio assorbire il dolore che non è mio. Non voglio farmene carico. Eppure, se l’hai visto l’hai visto. Non puoi girarti dall’altra parte. Ormai è lì.»
Un uomo anziano trascina una valigia semiaperta contenente biancheria alla rinfusa. È curvo e gli anni sembrano pesargli sulla colonna vertebrale quasi fossero macigni. Si siede sugli scalini di un portone. Stappa una bottiglia tirata fuori da chissà dove. Beve un sorso, sorride, ne beve un altro. Offre un goccio a una donna che ha con sé solo un bicchiere di plastica.
«Io vado a casa.»
Dice lei.
«Io resto qui, qua, ancora un po’.»
Dice lui.

Ha un cerchio alla testa che gli fa capire fischi per fiaschi. Quella mattina, il traffico, lo ha tenuto imbottigliato tra due suv capaci di oscurargli il sole. Nessuno sembra aver toccato la scrivania. Sul quadratino di carta igienica, però, qualcuno ha disegnato un sorriso. Alza la testa e si scherma gli occhi con la mano. La parete è ancora solo una parete. Eppure, qualcosa adesso è diverso. Qualcosa gli dice che si soffierà il naso con il dinosauro.
Non sente il bisogno d’andare altrove.

Photo by Madison Oren

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