Kintsugi: una ricetta zen per medicare la fragilità

In mano ho la mia tazza preferita, quella con impresso il disegno di un anime molto amato, e me la rigiro orgoglioso, è un pezzo della mia crescita che uso tutti i giorni. E’ rimasto con me, mattina dopo mattina, tisana dopo tisana, ricordandomi che in fondo derivo pur sempre da quel bambino, da quell’adolescente.
A furia di rigirarla, cade.
Cade e si rompe.
Ho davanti tre cocci che appaiono informi, quella che una volta era la mia tazza adesso è un ammasso di frammenti deformi e irriconoscibili.

Il kintsugi è l’arte di riparare le crepe con l’oro. E’ un concetto iper-abusato, sembra quasi diventata una tecnica da santone metropolitano, da guru omeopatico con il pollice verde. Nasce da un’esigenza pratica e concreta, riparare un oggetto amato dandogli una nuova forma e, se possibile, renderlo ancora più bello di prima. Prendiamo il caso della mia tazza: avrei potuto prendere i cocci, unirli di nuovo con l’aiuto di una qualche colla e infine pensare a qualcosa di creativo per valorizzare il lavoretto fai-da-te. Non sarebbe stato tanto complesso e forse alla fine mi avrebbe anche lasciato un vago senso di soddisfazione. Come se fossi per un attimo riuscito a sostituirmi alla Divinità delle Tazze Rotte. No Caronte, questa volta non ti permetterò di portare con te un’altra anima innocente. Non verrà con tè.
Deliri immaginifici a parte, credo che la filosofia alla base di questa tecnica stupenda possa essere applicata tanto agli oggetti quanto alle persone, alle relazioni, alle situazioni sociali, alle emozioni. Lo zen, si sa, tende ad invadere ogni sfera e aspetto della vita. Non si limita ad accettare l’invito per entrare in casa, dopo qualche minuto te lo ritrovi nel soggiorno, spaparanzato sul divano, vestito con il solo pigiama e una bibita in mano. Qualsiasi cosa è soggetta a rompersi. Non c’è nulla di immortale, nulla di “inciso nella pietra” per usare un’espressione che amo moltissimo. Lovecraft, tra le altre cose orripilantemente fantastiche che ha scritto, ci ha donato questa citazione: E col volgere di strani eoni / anche la morte può morire.
E’ un’estremizzazione me ne rendo conto, ma vale l’immagine che evoca. Nulla permane all’infinito, nulla si mantiene costante, tutto cambia. Ho anche scomodato Eraclito, spero non se la prenda per la mia arroganza.
E se tutto cambia … tutto potenzialmente finisce. Ed è necessariamente un male?
No. Almeno, non credo. Sono un fan della “Morte” dei Tarocchi, del suo occhio quasi giusto, imparziale, onnipresente e malinconico. Del rinnovamento, del ciclo che finisce per dar la luce ad altro.
Non vuole essere una riflessione sulla morte, ma sulla caducità delle cose terrene (e non) sì.

Quindi Kintsugi!
Se tutto rischia di cadere nel baratro, di rompersi in mille pezzi, quale migliore soluzione se non quella di trattare amorevolmente i frammenti che rimangono e di comporli in una forma nuova? E’ una soluzione che coniuga estetica e utilità, etica e sanità.
E’ più del vernacolare “mettece ‘na toppa”, è più del titanico “resisti e vai avanti” e ancor più del deleterio atteggiamento delle tre famose scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.
Non avete abbastanza polvere d’oro per imbrattare il vostro migliore amico spezzato in due?
Non sapete quale colla utilizzare per ricomporre i vostri pensieri franti, le vostre temute mancanze, le vostre sottaciute potenzialità?
E che ci posso fare io! Sono un giullare mica un “compro oro”.

P.S. La tazza non l’ho riparata.
P.P.S. Però ho superato il trauma applicando il Kintsugi!
P.P.P.S. La tazza non è mai esistita.

  1. E’ sicuramente così, ma ormai alla mia età ho imparato a fregarmene anche del galateo, preferisco dire quello che penso,…

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