Sono le quattordici e undici e la campanella ha trillato il suo “andate in pace” da ben dodici minuti spaccati. Una fiumana di gente ha finito di raccogliere borse e zaini, astucci, matite volanti e cerbottane costruite grazie ai fogli sparsi di una lezione sulla storia romana e l’elastico per capelli della ragazza del banco affianco (da non confondere con la ragazza della porta accanto, sono due categorie che spesso né combaciano né si incontrano). L’aria è carica di attesa e smog, le macchine dei genitori raccolgono i primi fortunati che ce l’hanno fatta ad attraversare la calca. Gli altri, reduci, arditi, insopportabilmente consci del pericolo, si fiondano verso il rifugio definitivo, l’oasi nel deserto, la fermata dell’autobus. In tutto questo caos umano c’è chi sgomita, chi erutta imprecazioni colorite, chi gioca al telefono, chi non si è accorto che il jack delle cuffiette si è staccato e sta facendo da dj per tutti. Freme la massa, ondeggiano i giubbotti quando dal vicolo spunta lui, il vicino Totoro di noialtri, il mezzo scalcagnato che porterà tutti a casa. Lentamente, attraverso strade impensabili e voragini nel terreno.
E’ ineluttabile, come la simpatica stupidità di un team di supereroi di fronte ad un’insidia galattica.
Tutto ciò ha del rocambolesco, eppure è quello che accade per cinque giorni a settimana per almeno nove mesi l’anno. Parlo per esperienza personale, non sto cercando di dipingere una scena assurda solo per strappare qualche risata. Io, di fronte a certi ricordi, non posso che sorridere. Lo faccio perché dall’alto della mia coppola ben calcata in testa e dei cantieri che tanto amo osservare percepisco sulla pelle il tremito dell’attesa che andava condensandosi in umori vari, manifestati spesso in modo incontrollato e fin troppo diretto. Mentirei se dicessi che quelle esperienze non mi hanno formato. Mi hanno, strano ma vero, lasciato qualcosa. C’è una certa poesia nell’irruenza dei movimenti indotti da una strada dissestata, nelle evoluzioni virtuosistiche di un conducente un po’ eccentrico che per puro divertimento si immagina sulla pista di un rally tra i fiordi norvegesi. Le attese sono più prosastiche, ma danno modo di pensare, di vagare con la mente e di agognare la poltrona per il sonnellino pomeridiano.
Perché cercare di trasmettere l’importanza di certe situazioni apparentemente banali? Del resto attendere l’autobus è spesso visto come un qualcosa di tedioso e maledettamente inutile. Così come inutile potrebbe essere considerata l’attesa della vigilia di Natale, quando i bambini non stanno più nella pelle e vorrebbero aprire i loro regali a costo di perdere qualche parente nella colluttazione. Inutile diventerebbe allora l’attesa di un giorno ambito, di un compleanno, di una festa comandata, di una ricorrenza tanto importante da meritarsi un cerchio rosso sulla data del calendario. Inutile sarebbe quindi il corteggiamento, quel lungo periodo di scosse, sismi, terremoti emotivi, nei quali la passione viene idealizzata, sublimata, anelata come un panino del Mc a mezzanotte dopo una cena a base di verdure scotte e cubetti di tofu. Inutile sarebbe infine lavorare sodo per ottenere qualcosa che si desidera perché, a conti fatti, se si ha, o si può sgraffignare, una disponibilità non sudata tanto vale usarla e sfruttarla subito. Attraversiamo insieme questo torrente, come esseri umani, nel quale da una parte troviamo un mondo di ristrettezze, di obblighi e privilegi spiccioli conquistati col sangue sul campo di battaglia, e dall’altra vediamo un parco a tema di quelli grandi e luminosi, nei quali si è sempre turisti, dove il portafoglio è sempre spalancato, la vita di tutti i giorni si dimentica e si arraffa il presente come in un golosissimo gioco a premi.
Ma una via di mezzo esiste, sempre, nonostante la corrente.
Sono le quattordici e undici, tra due ore circa verranno degli ospiti a casa e io non vedo l’ora che succeda. Ho davanti a me, servite su un piatto con l’immagine di Hello Kitty stampata sopra, delle ciambelle glassate di quelle che l’ispettore dei Simpson consuma come atomi di ossigeno. La mano trema e lo stomaco brontola. Riconosco la gola, questa non è fame. Riconosco altresì il desiderio di consumarne una seduta stante, sebbene siano contate e numerate. Nella solitudine di questo salotto reputo saggio ingollare questa ciambella senza aspettare gli amici. Gli zuccheri entrano in circolo, il sapore attiva le papille e poi niente.
Un secondo e la voglia è già diventata fredda, un ricordo. Dalle ceneri del desiderio nasce un bisogno, forte, caldo e per questo accecante.
Lo stomaco non è di certo soddisfatto.
Il piatto non è di certo vuoto.
Sopraggiunge la nausea, ma per non essere didascalico non svelerò perché.
Le attese sono parte integrante del godimento, di qualsiasi natura, almeno credo. E’ durante questi momenti di sospensione che si riesce ad uscire dalla comfort zone, che ci si prende magari la briga di lasciarsi stupire da qualcosa di scontato. La brama di avere tutto subito rischia di strappare con i denti il fragile tessuto del desiderio. L’equazione è semplice: più si prova piacere, meglio si sta. Quindi perché ridurre drasticamente le attese, perché correre, perché essere turisti della propria quotidianità?
Il desiderio è un sentimento volatile e altamente infiammabile, ci mette poco a diventare prima brama e poi frenesia fine a sé stessa.
“Attendere in linea prego, un nostro operatore ti risponderà a breve”.
… anche se ci sono attese che è meglio evitare.
Photo by Akshay Chauhan