Scrivere. Condividere un pensiero, un arrovellamento, un’esperienza, una realizzazione. Produrre una stringa di caratteri che, magicamente, prende la forma di uno scenario completo, completo nella sua parzialità poiché prodotto da mani-menti-organigenitali limitati come quelli degli esseri umani.
Sprecare questo potenziale suona come una blasfemia pronunciata sul sacro terreno del dio che preferite. La letteratura, che piaccia o meno, è un sistema ben collaudato regolato da leggi interne ed esterne. È un motore sofisticatissimo al quale doniamo la nostra fantasia come carburante. La fatica, il sudore, i traumi e i grandi traguardi, tutto profondiamo in questo marchingegno fantasmagorico in grado di dare vita a leggende e miti. Le storie che ne escono fuori, raffinate, manipolate, elaborate e, perché no, masticate, digerite ed espulse, si tramutano in modelli. Schemi da rifiutare oppure accettare, aspirazioni da incarnare oppure fallaci e mendaci illusioni da quattro soldi. La letteratura, ma quello di cui vorrei qui discorrere è la narrazione tout court quale può essere l’articolo di un giornale, la cronaca familiare oppure il filo che lega le gomme da masticare attaccate saldamente sotto i banchi di scuola e sull’asfalto di tutte le città del mondo, si nutre di infiniti elementi, è, in questa prospettiva a maglie larghe, ampia quanto i crateri sulla luna, l’esistenza stessa. Siamo esseri composti di atomi e ricordi, di messaggi in entrata e in uscita. La somma di queste componenti genera la storia, quella umana, quella vera, non la parodia che si trova sui libri di scuola, che altresì andrebbe chiamata la storia politica degli omicidi operati dagli uomini di stato (Popper perdona la mia penna ignorante). La storia, ecco, eterna rivale-compagna di pensatori e filosofi, matematici e spazzacamini. La letteratura coglie, grazie all’occhio a volte acuto e a volte ottuso di singoli individui, lo scorrere incessante del tempo, con i suoi cambiamenti, le sue bizzarrie e i suoi bruschi mutamenti d’umore. Non è un panegirico piuttosto scontato il mio e nemmeno un modo arzigogolato per cacciar fuori dal suo armadio l’ampolloso “spirito del tempo”, bensì un sussurro, un consiglio, se vogliamo anche un ammonimento. Raccontare e raccontarci è ciò che ci rende quello che siamo, al di là delle etichette. Basta con le tre scimmie del non-vedo, non-sento, non-parlo. Basta con la definizione dell’uomo come di un animale sociale. Altri sono i momenti, o i contesti, nei quali fare sfoggio della propria memoria citando frasi emblematiche quanto ciancicate.
Bisogna avere cura di questo sistema, perché è nell’anomia che ci perderemo come specie. L’obiettivo non è salvaguardare le polverose biblioteche della tradizione, nonostante non dobbiamo minimamente osarci a bruciarle, ma quello di custodire l’indipendenza e l’autonomia della rielaborazione artistico-creativa-documentaria-tuttecose. Non credo che sia un discorso vuoto e astratto, da persona con la testa imperniata, ma che dico, incardinata, quasi la totalità del giorno su volumi e righe che non finiscono mai. È anzi la consapevolezza alquanto ignorante di uno scrittorucolo da strapazzo che riconosce gli angusti spazi del termine letteratura. I video di YouTube, TikTok, Instagram, Vine (so che non esiste più, ma si merita un degno requiescat in pace) non sono esenti da questo discorso. Le live di Twitch, lo streaming on demand, Netflix, Amazon Prime Video e tutto quello che vi viene in mente sono parte del grande insieme delle narrazioni contemporanee. Poi, che alcuni puristi non vogliano dare la palma a determinate opere perché ritenute inferiori in quanto apparse o costruite seguendo unmedium non del pleistocene … ciò si commenta da solo. Siamo circondati da segni, simboli e interpretazioni. È inutile arroccarsi su posizioni insostenibili. Ciò detto, ogni campo d’indagine ha le sue peculiarità. Sarebbe sbagliato anche paragonare acriticamente un film del 2022 con una commedia di Aristofane oppure lo sketch esilarante di un valente giovane su TikTok con i mimi romani d’età imperiale. Siamo consci di queste particolarità, ecco, dobbiamo esserlo anche dell’importanza che rivestono nella nostra vita di tutti i giorni. Impatta il nostro modo di lavare i piatti e anche come ripensiamo ai tempi della scuola dell’obbligo. Modifica la percezione di cosa sia “alto” e cosa “basso”. Norma e incasella un modus vivendi, diciamo pure una pletora di modelli potenziali. Se tieni “così” la sigaretta è perché l’hai visto fare ad altri. La comunicazione gestuale-cinestetica è pur sempre una forma di narrazione.
Quindi, le narrazioni ci pervadono nonostante cambino al passare del tempo e si avvalgono di strumenti diversi per accattivarci, coglierci, ammaliarci. Inoltre, sono importanti per strutturare la nostra identità, per costruirla anche in negativo, reattivamente, per esprimerci e trovarci nella cameretta-mondo post rivoluzione digitale. Tirando le somme non è un discorso astratto da film mentale e nemmeno l’aristocratico-intellettuale proclama di chi vorrebbe che la gente leggesse di più (ma io questo lo voglio, per inciso).
La premessa è molto più lunga del mio messaggio, lo sottoscrivo per trasparenza.
Accolgo il timore calviniano delle Lezioni americane sul possibile crollo di sistemi millenari, ma al contempo mi rendo conto di come tutto venga sempre assimilato e inglobato, masticato e digerito in forme diverse. Nel nuovo sopravvive sempre un briciolo di vecchio, anche solo perché secondo il principio della conservazione della massa nulla si crea né si distrugge. Certo, il nuovo dovrà necessariamente fare i conti con il vecchio, superarlo, abbatterlo, vincerlo e, infine, si spera, essere con lui clemente. Ma è qui che entra in gioco l’indipendenza della creazione fantastica, in senso lato, come piace a me. Sono sempre esistite tante divinità alle quali tributare i propri onori. Il Dio-denaro, il Dio-fama, il Dio-sapere, il Dio-educazione, Il Dio-sesso, il Dio-spaghettiallacarbonara sono solo alcune delle motivazioni che hanno spesso fornito la linfa per produrre capolavori (così come spazzatura invereconda, nella maggioranza dei casi). Il sugo di tutto questo discorso affabulatorio è la differenziazione. Non diamoci in pasto all’unico e onnipotente dio dei nostri giorni, il Mercato. Il suo Pantheon è formato da figli reietti e un po’ storpi. Ci sono l’analitico e sterile Indagine di Mercato, l’avido e compromettente Profitto Incondizionato e la chimerica e lontana Moda Imperante (che di imperante ha solo il suo morire dopo fulgori iniziali) e tanti altri.
Vogliamo essere blasfemi fino in fondo? Sputiamoci sopra a questo Pantheon corrotto, ma tenendolo bene sottocchio, che non si muova troppo e faccia scherzi di cattivo gusto. Vampirizziamolo di tutto quello che ha da offrire, ma lasciamolo come carcassa vuota a giacere sul bordo della strada. Non va ignorato, ma depredato, come lui tenta costantemente di inculcare a noi bisogni e desideri fittizi. Non accettiamolo in blocco come fosse un male necessario connesso a tanti comodi servizi, sfidiamolo, carpiamone i segreti, ammaestriamolo.
Anche perché, sapete quale è il rischio? Di appiattirsi, di divenire lastre battute sempre dallo stesso martello, stordite dal ritmo incessante di una macchina che gira, lontana, distante e considerata intoccabile. Lastre, fogli sottili, traslucidi, sui quali anche una mosca si potrebbe segnare permanentemente. Drogate e circuite da uno spacciatore dal volto benevolo e le tasche piene, lui, il padrone della fucina, il fabbro in mise da gentiluomo, il proprietario dell’incudine della consolazione. Perché, alla fine della fiera (degli orrori), fare quello che fanno tutti è rassicurante.
Se avete una penna e voglia di fare, usate sangue e mira per lanciarla ai vostri bersagli.
Se avete un obbiettivo e qualcosa da dire, bucate lo schermo con intenti incendiari e costruttivi.
Se avete un cervello, ambizioni, utopie, parlate e parlate e parlate per costruire nuove strade.
Foto di Arseny Togulev