Fermo capitano, c’è qualcosa all’orizzonte

Mi sono fatto questa opinione della letteratura dell’Ottocento: volete diventare dei narratori? E’ impossibile evitare lo scoglio delle avviluppanti pagine ottocentesche. E, badate bene, parlo dei narratori e non degli scrittori. La differenza, sempre secondo la mia insulsa opinione, è presto detta. I primi si focalizzano soprattutto sulla fabula, ossia tentano di costruire una storia convincente, coerente e soprattutto accattivante, mentre i secondi sull’intreccio, ossia il modo in cui la stessa fabula viene organizzata. Essere un narratore significa saper affabulare e imbastire delle storie memorabili, pregne di sentimento, figure esemplari e intrighi avvincenti.

Significa rendere i propri personaggi immortali, tanto da diventare proverbiali. Essere scrittori invece presuppone abilità leggermente diverse come una conoscenza approfondita del codice linguistico, ed ecco perché, soprattutto in Italia, c’è ad esempio la tendenza a puntare sulla “bella pagina” piuttosto che su un contenuto interessante, e della stessa tradizione; bisogna ricordare che per rompere con l’orizzonte d’attesa dei lettori è necessario innanzitutto conoscerlo bene.
Tralasciando adesso le mie bizzarre divisioni dicotomiche del mondo torniamo al punto della discussione, la letteratura dell’Ottocento. Personalmente ho esplorato quella inglese, sto masticando pian piano quella russa e per forza di cose conosco quella italiana. Sulla prosa francese dell’Ottocento non so esprimermi, purtroppo mi manca come una figurina poco agognata dell’album dei calciatori. Questi tre mondi di cui ho conoscenza condividono una qualità invidiabile che difficilmente ho ritrovato nel secolo successivo. Questi romanzi sono, nella maggior parte dei casi, un’affabulazione continua. Fioccano i personaggi in ogni dove, le avventure sono tante e i dialoghi presentano quella chiarezza e quella verosimiglianza che lasciano interdetti. Hanno per caso registrato la voce del popolo come spunto per ottenere un risultato tanto credibile? Ci si potrebbe domandare anacronisticamente.
Eppure, un aspetto manca in questo tipo di narrazioni. La psicologizzazione delle trame e dei personaggi. Ecco, noi lettori del ventunesimo secolo, siamo abituati ad entrare nella mente dei nostri eroi e ne scandagliamo i pensieri più profondi alla ricerca di quel tassello che ci faccia dire “sono io, sono proprio io”. Ci crogioliamo nei periodi ipotetici, sguazziamo nei “forse”, nei “ma”, spesso tralasciando il sugo di tutta la questione. I manichini messi in scena, quando la penna dell’autore non è tale da sbalordire, sembrano seguire dei copioni già scritti, triti e ritriti. E, nei casi peggiori, si giunge alla fine della pagina, poi del capitolo, infine del libro, senza avere l’impressione che sia successo granché. Ciò, nei grandi romanzi dell’Ottocento, non succedeva. L’attenzione alle più basilari strutture della narrazione era tale, da non permettere un simile errore. Gli scrittori, o narratori se preferite seguire la mia etichetta burlesca, dovevano contare sull’appoggio del pubblico, sul loro interesse, pur di sperare di rendere quel passatempo infruttuoso un lavoro vero. Un po’ come gli aspiranti influencer, no? Conseguentemente, abbiamo una Situazione Iniziale ben definita (adoro mettere le maiuscole a sproposito ed è tutta colpa di Douglas Adams) nel tempo come nello spazio, dei Personaggi che fin da subito ricoprono dei ruoli riconoscibili e un Oggetto del Desiderio palpabile. Successivamente la Rottura dell’Equilibrio Iniziale (sembrano i nomi di alcune tecniche da anime low budget) proietta la storia nel campo delle Peripezie e infine, grazie all’intervento di qualche fattore esterno oppure al successo di un qualche piano, si giunge alla Ricomposizione dell’Equilibrio e alla definitiva Conclusione. Ora, non voglio dire che tutte le storie abbiano la stessa struttura narratologica, ma in generale si può affermare che questi passaggi vengono perlomeno tenuti in buona considerazione. E, ancora una volta, seguirli pedissequamente non è condizione necessaria e sufficiente per scrivere una storia pronta a divenire proverbiale.

Cosa rimane alla fine della lettura di questi volumi copiosi, più dei pezzi d’arredamento che dei libri da mettere sopra uno scaffale?
Una quantità inverosimile, una marea impressionante, di azioni, fatti e svolgimenti. Il dubbio se sia successo qualcosa o meno viene scacciato dall’onda alta delle peripezie. I personaggi non pensano così tanto, o perlomeno non esplicitamente. E se lo fanno, danno l’idea di aver ingaggiato un monologo individuale su un palcoscenico. Sono abituati ad agire, a muoversi nello spazio modificandolo, sono esseri pratici e situati nel qui e ora. Non si perdono in astratte elucubrazioni sul perché la loro mammina non li abbia mai accarezzati con la mano sinistra e sempre con la destra e non si dannano l’anima alla ricerca di quel particolare, sì, proprio quel singolo particolare, che ha deciso l’intero corso della loro esistenza. L’Ottocento sarà anche il secolo di Proust e della sua madeleine, ma con lo scrittore francese siamo già verso una cultura della crisi, soprattutto quella dell’individuo e della centralità dell’Io come figura forte, indomita e sicura di sé e della sua capacità di cambiare il mondo in positivo. E’ come se, in un torno di anni piuttosto ristretto, quello della Belle Époque?, il campo d’azione dei personaggi fittizi si fosse spostato dalla realtà a quello della pura speculazione. Ed apriti cielo! Ecco giungere i colpi mortali dalla psicoanalisi di Freud, del principio di indeterminazione di Heisenberg, dalla teoria della relatività di Einstein e anche dalle numerose scoperte della nuova antropologia scientifica. In sostanza, iniziò a gridare il mondo della cultura, fattispecie del progresso, l’idea che “addio umanisti, addio antropocentrismo, siamo dei vermiciattoli anche bruttini che camminano su un sasso poco importante nell’ordine cosmico delle cose”.

Chissà i narratori dell’Ottocento come avrebbero letto opere del calibro di Finnegans Wake, Le onde, La coscienza di Zeno, Uomini e no, Estinzione e tanti altri. Chissà se Melville, ad esempio, dopo aver inondato le pagine di Moby Dick della sua esperienza personale come marinaio e della sua fervida ispirazione, avrebbe apprezzato questi inetti, questi individui incerti e maldestri che popolano le pagine come degli stranieri con gli occhi puntati sull’uscita di sicurezza.
“Fermo capitano, c’è qualcosa all’orizzonte. E, per la prima volta, non ho intenzione di scoprire cosa si celi dietro la sua linea”.
Tranquillo Melville, si tratta solo del baratro dell’Io e della porta dell’Angoscia.
Niente di che.
Bazzecole.

Photo by Rick Lobs

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