Tabuizzare significa conferire a un referente gli attributi di un tabù. Un tabù, antropologicamente parlando, è una forma di manomissione volontaria della comunicazione e del sentire collettivo. Spesso, le comunità utilizzano questo espediente per riconoscere una minaccia, raffigurabile nel campo del “diverso” e del “pericoloso”, stigmatizzarla e, infine, bandirla simbolicamente.
Per una tribù di homini sapiens ha senso non nominare direttamente un orso, animale che, senza equipaggiamento, addestramento e un gran numero di individui, è difficile da fronteggiare. È lo stesso principio che porta a nascondere i malvagi oppositori delle saghe fantasy dietro etichette quali l’Oscuro Signore oppure Colui che non deve essere nominato. Non ci vuole una cima per capire di chi si stia parlando, in genere, anche perché anteporre un comodo “non” a una frase non comporta la negazione della sua esistenza, bensì solo il rovesciamento semantico del suo significato. Esiste una figura retorica che si occupa proprio di questo, la litote (ossia affermare un assunto intendendo il suo contrario).
Un tabù può essere sfruttato come strumento difensivo oppure offensivo. Identificare in un “tipo”, magari una caratteristica fenotipica, un determinato atteggiamento, una provenienza geo-socio-culturale, la radice dei mali che colpisce la maggioranza di un dato insieme di individui permette di stabilire un confine piuttosto netto tra “loro” e “noi”. Inutile fare esempi tratti dalla realtà contemporanea in cui la tecnica del capro espiatorio viene utilizzata anche per giustificarsi del fatto che dal macellaio avevano finito i cosciotti di pollo. Al contrario, un tabù può anche proteggere un’informazione da orecchie indiscrete, quasi fosse un codice crittato e la sua chiave di decifrazione si trovasse nelle mani di un ristretto numero di persone. Genericamente, quindi, questo espediente si utilizza per smorzare oppure per potenziare e sottolineare un elemento della realtà che ha un grande impatto nella mente e nella vita di coloro che ci entrano in contatto. Non nominare il nome di dio invano, recita un comandamento tautologico e, a parer mio, aporetico.
È giusto che esistano i tabù? Una risposta oggettiva è difficile da fornire. Se, come sembrerebbe emergere dallo studio scientifico dell’antropologia e delle discipline che a essa si accompagnano, tabuizzare fosse un meccanismo inconscio e spontaneo della nostra razza per salvaguardarsi dalle minacce, potremmo propendere per un secco sì. Qualora invece fosse solo il giogo con il quale la classe dominante (momento storico in cui si va, classe dominante che si trova, per parafrasare un vecchio adagio) sottomette di volta in volta le classi inferiori, verrebbe da definirlo non solo ingiusto, ma fonte e origine dell’ingiustizia stessa. Sta di fatto che, da razionali esploratori dell’oggi quale siamo diventati dopo secoli di pratica politica, è possibile riconoscere nel tabù uno strumento neutrale, un meccanismo che, di per sé, non ha a che vedere con le sfera morale del buono e del cattivo.
Data questa premessa, cosa dire della censura? L’espressione di un pensiero non deve essere mai impedita, né con la forza, né con la persuasione. Il suo contenuto, qualunque posizione sostenga, è prezioso in quanto indicatore di un bisogno oppure portatore di un punto di vista inedito, problematico e degno d’esser preso sul serio in quanto causa di disagio. Obbligare, nascosti dietro il nume tutelare della legge uguale-per-tutti, delle persone a non esprimere delle opinioni perché sconvenienti o non allineate è un gesto barbaro quanto quello di schiaffeggiare un interlocutore per mozzargli in bocca le parole. Ci sono innumerevoli idee che non vorremmo sentire, che non condividiamo e che vorremmo sparissero dalla faccia della terra. Questo non significa che siano sbagliate o del tutto immotivate. Le idee assurde, anche le più fastidiose come i rigurgiti fascisti di una discreta fetta della popolazione italiana, non vanno bandite nel nome di un dogma autoevidente. Vanno contrastate passo dopo passo, permettendo agli stessi sostenitori di queste posizioni di correggere da sé i propri errori. La democrazia, perla imperfetta eppur bellissima e preziosa, non è il governo del popolo, bensì il governo del popolo informato e pienamente consapevole delle decisioni che prende. Se davvero si vuole essere democratici, bisogna portare la discussione sul piano del metodo, in modo tale da costruire maieuticamente un futuro migliore per tutti. Opporre al dogma “meno” il dogma “più” serve solo a prolungare e inasprire la contesa.
Si può dire tutto, ovviamente tenendo conto del contesto e della forma del messaggio.
Un film emozionante, coinvolgente e stimolante intellettualmente sul cannibalismo si può fare. Ce lo dimostra la saga di Hannibal Lecter con Antony Hopkins. Quindi, in sé, il tema cannibalismo non ha niente che non vada. Per alcune persone sensibili può essere respingente, nel qual caso basta evitare contenuti simili, per altri, invece, accattivante, anche solo per la possibilità di entrare in contatto con un punto di vista sicuramente differente da quelli di cui si ha esperienza nella quotidianità. Cosa dire degli elementi gore, ossia quel tipo di narrazione che prevede di mostrare esplicitamente allo spettatore delle azioni violente, brutali, barbariche, al limite con l’orrore? Se inseriti con perizia e abilità non fanno venire il voltastomaco, anzi, mettono in discussione valori e concezioni della vita, stimolano a immaginare esperienze estreme (in via teorica, ovviamente) e colpiscono lasciando il segno (senza sfociare nel regno del trauma). Anche qui, una vasta filmografia ci viene in soccorso. Numerose pellicole pregevoli si fregiano del titolo di gore, comprese alcune del buon Tarantino (che probabilmente definirei più splatter, ammetto di non sapere dove finisca lo splatter e inizi il gore). Delle storie d’amore nemmeno ha senso parlare. Letteratura, cinema, scultura, pittura, l’annuncio pubblicitario di tecnocasa … tutto, tutto ci parla d’amore, l’amore dei giovani, l’amore di due individui problematici che devono confrontarsi con i propri demoni, la relazione stessa, le aspettative della famiglia e della società … insomma, la casistica dell’innamoramento ci è stata somministrata come una medicina necessaria per sopravvivere (e se fosse solo una pastiglia di zucchero? Meglio non sollevare polveroni).
Io mi chiedo, adesso, a cuore aperto (ammicca-ammicca), quale senso abbia Bones and all. Cosa dovrebbe rappresentare, cosa evidenziare con questo fantomatico tocco poetico e leggero. Di poetico, nel film, c’è ben poco. Anzi, c’è poco in generale nel film stesso. Due protagonisti scialbi che non riescono a mettere in fila due parole sensate. Una trama a tratti sconclusionata e a tratti paludata nei cliché del genere orrorifico-sentimentale (quale deforme aberrazione …). Uno scenario che non parla e resta muto dall’inizio alla fine. Certo, la fotografia è eccezionale ed è facile riconoscere un tocco autoriale alla regia, ma non basta a rendere il film intrigante e degno di essere visto fino alla fine. Perché, tra l’altro, è lungo, lungo di questa lunghezza dei film recenti che, se non superano le due ore abbondanti, sono praticamente da buttare secondo i produttori. Io posso comprendere l’attenzione al prodotto originale. Posso riconoscere la necessità di non perdere tempo nei reboot dei remake dei reboot. Ma un’idea strana non è meritevole d’attenzione solo ed esclusivamente in quanto bizzarra. A questo punto vorrei proprio leggere il libro da cui è tratto.
È un film brutto perché parla di cannibali e amore e c’è tanto sangue sullo schermo? No, è brutto perché questi elementi sono arrangiati tanto male da lasciarti con un’amarezza sconfinata dopo averlo finito.
Photo by Belinda Fewings
Una replica a “Tabù e amaro in bocca”
Il più classico dei tabù: associare nomi e nomignoli ai genitali. Perché la testa è la testa, al massimo il capo, o la zucca o la crapa se è dura…
Il braccio è il braccio, ma il pene e la vulva (o la vagina se è l’organo interno) devono chiamarsi “uccello” “pisello” “topa” “fregna” o anche nomi bambineschi? Dare nomi diversi a qualcosa che già ce l’ha, vuol dire averne paura.
“Dall’altra sponda” o peggio “diverso” per non dire gay. “Sieropositivo” che sarebbe un termine generico ma erroneamente si sottintende l’HIV quando uno può essere sieropositivo anche all’epatite o… Al covid.
Perché diavolo in inglese ci chiamiamo PLWH (people living with HIV -persone che vivono con l’HIV- e qua si fa fatica a parlarne? Perché un uomo con disfunzioni erettili anche temporanee viene etichettato con un termine devastante? IMPOTENTE. Che suona ancora peggio di INVALIDO.
E per via di “dire una cosa per affermare il contrario” la mia collega e ideatrice del Mondo Positivo mi diceva che dalle parti sue “omosessuale” si dice “sgorla”. Che vorrebbe dire “persona che si scrolla, si dà da fare” ma in realtà si intenderebbe “rammollito, senza forza” la stessa brutale etimologia di f-word.
A proposito di tabù e amaro in bocca sai che c’è? Preferisco come amaro il BRANCAMENTA e come tabù quelle di liquirizia nella scatolina.
E già sento mio marito dirmi “Gifter, sei matto? Ti si alza la pressione!”
Dai, per una volta si può fare.
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