La grande città che non è più madre

Sei appena stato dal barbiere. È il trentuno dicembre e i capelli profumano di cocco e vaniglia. Non sapevi che avessero iniziato ad usare delle lozioni tanto particolari, sei rimasto ai tempi del rasoio e della schiuma inodore. Attendi la sera, che arrivino gli amici a casa e che la tua dolce metà si presenti con una busta della spesa formato balenottera azzurra. Sfreghi, con le dita rigide per il freddo, le pagine di un giornale. L’hai comprato quella stessa mattina, sfogliandolo come di consueto. Qualcosa di attualità, qualcosa di economia, poca cultura, molto sport.

Una banconota ti sfrigola in tasca. È quella che avresti dovuto usare per comprare a Mario un pensierino. Una bottiglia di spumante, un vino pregiato, magari un cesto di quelli che compongono proprio per le feste natalizie. Eppure, il Natale è passato e l’anno nuovo è alle porte. Il millennium bug è vicino, così tanto che nell’aria c’è chi grida apocalisse. Non la capisci tutta quella storia. Hai tempo da vendere, eppure non comprendi. Mentre posizioni le sedie a raggiera attorno al tavolo, ponderi. Mentre collochi i divani in modo tale da avere un’ottima visuale dello schermo televisivo, ragioni. Mentre cambi tutto, perché a lei non starà bene, pensi. Senza arrivare ad una conclusione. Di informatica non te ne intendi e anzi ti sembra assurdo che le menti più geniali del mondo si stiano ponendo il problema di una data. Basta che il numero scorra in avanti di una posizione, no? Da millenovecentonovantanove a duemila. Cosa ci vuole? Lo saprebbe fare un macaco da laboratorio. Per la noia esci di casa ed entri in un bar, ne va bene uno qualunque. Scorreranno fiumi di champagne, di bianco e di rosso, ma iniziare un po’ prima la festa non è reato. Allora brindi al millennio che finisce, brindi guardando gli altri uomini che brindano guardando, tra gli altri, anche te. Brindi e pensi che in quel bar, una volta, tuo fratello ha incontrato quella che sarebbe diventata la sua prima ex moglie. Brindi e vedi il vecchio proprietario lanciare una sedia di plastica in strada, per chissà quale motivo. Brindi e constati un fatto nudo e crudo: lì dentro non conosci nessuno. E il liquido frizzantino cala nella gola che è una meraviglia.



L’etimologia della parola metropoli è molto interessante. Deriva dal greco antico, ma guarda un po’ te!, ed è composta dai termini madre e città. Ricordate la polis della magnifica epoca classica, quella in cui i cittadini si facevano avanti per stabilire in comune il futuro della vita pubblica? Ecco, proprio lì affonda le sue radici la metropoli. In quell’esperimento di democrazia diretta tanto lontano dalla nostra democrazia rappresentativa. Ad oggi sarebbe difficile replicare un sistema simile – è quasi impensabile prendere decisioni del genere addirittura in un condominio – eppure un tempo era la norma, la buona norma. L’idea alla sua base era intuitiva. La partecipazione aumentava il coinvolgimento dando a tutti l’idea di poter davvero cambiare il corso degli eventi con le proprie forze. Inoltre, la somma delle qualità di ognuno avrebbe arricchito la città che, essendo gestita in maniera tanto armoniosa, avrebbe riversato le proprie conquiste proprio su coloro che l’avevano indirizzata sulla giusta via. Era un circolo virtuoso a tutti gli effetti. Fare un favore al proprio vicino significava migliorare le condizioni di vita di un individuo che avrebbe avuto modo di replicare l’azione stimolandone l’imitazione. Ed ecco che, sulla carta, resta forse l’esempio migliore di governo che ci sia mai capitato sotto al naso. Non che nell’antica Grecia, e nemmeno nella splendida Atene, le cose siano andate sempre così lisce. Eppure, questa idea ancora resiste, ancora mette radici nel nostro immaginario.
Da una parte abbiamo quindi la polis, dall’altra la madre. Altra figura che antropologicamente ha una certa rilevanza, non credete? La madre è colei che ti dà la vita, che ti instrada, che ti fornisce la protezione e la base sicura dalla quale partire per esplorare il mondo circostante. La madre è quella figura che non ti abbandonerà, che parteggerà per te nonostante tutto, che ti eleverà sul piedistallo più alto del mondo a costo di sopportarne il peso sulle spalle. È amorevole e severa, quando serve. Ti abbraccia e ti consola. Ti redarguisce e poi ti spiega.
Ed ecco che giungiamo alla metropoli greca, la città dalla quale dipendevano le colonie e gli insediamenti ad essa immediatamente collegati. Era una madrepatria, un luogo, appunto, capace di gestire e monitorare l’andamento dei suoi figli che, ormai grandi, erano partiti per scoprire il grande mondo. Etimologicamente, questa sfumatura non solo è corretta, bensì scalda il cuore al solo pensiero di questa donna che con un cannocchiale osserva la costruzione di strade, case, porti e mercati lontani.
Il termine è stato ovviamente preso in prestito dai latini, gente pragmatica e seria, che ne ha fatto buon uso: ecco a voi Roma, la città divenuta madre del mondo conosciuto, la città sotto le cui insegne sfilavano i trionfatori più celebri e le arti più squisite. Da madre orgogliosa vegliava sui pargoli, eppure, come spesso accade, la sua educazione divenne a mano a mano permissiva ed esageratamente liberale. Ed è così che venne detronizzata, saccheggiata e dalle sue torri innalzarono nuovi stendardi.
La metropoli sopravvive nel latino medievale, diventando sinonimo di “grande città”, ed ecco che, da buoni barbari del nuovo millennio, abbiamo iniziato ad associare questo nome alle città in cui viviamo oggigiorno. Metropoli, la grande città.
Ma è madre? È una culla di partecipazione?
Là dove i rapporti sono diventati tesi e sparuti, dove le comunità si disperdono e il terreno viene colonizzato dal miglior offerente, dove sorgono servizi e tramontano le tradizioni, dove lo scambio umano è tanto incessante da diventare spaesamento, dove il tempo è troppo, sur, dove lo spazio è troppo, sur, dove l’individualismo è troppo, sur, dove l’uomo moderno è divenuto un eccesso nevrotico, oltremodo ansioso, oltremodo paranoico, là, dicevamo, c’è davvero una metropoli?



Ti gira la testa. Non sono nemmeno le sette di sera. Fuori è buio ma i fari delle macchine, le insegne dei locali, i cartelloni pubblicitari, i lampioni e le luci che provengono dalle finestre delle abitazioni private illuminano. Ti siedi su una panchina. Guardi la rotonda di fronte a te. Le macchine incasellate nel traffico sembrano inseguirsi secondo le regole di un gioco perverso.

Riferimenti:
M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967
M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2005
Ovviamente la Treccani per l’etimologia della parola “metropoli”, ammicca ammicca.
Consigliati in merito:
S. Yoshida, Appartamento 401, Feltrinelli, Milano 2019 (il romanzo è del 2002)
B. Yoshimoto, Il dolore, le ombre, la magia, Feltrinelli, Milano 2014 (il romanzo è del 2004)

Photo by Stefano Valtorta

5 risposte a “La grande città che non è più madre”

  1. Purtroppo nel tempo si sono pian piano sgretolati tanti valori importanti, questo ha portato ad una perdita della fiducia verso un po’ tutto, la politica, le persone e addirittura la famiglia. Questo ha portato al degrado in cui siamo ora in cui non esiste più il rispetto e qualsiasi cosa viene affrontata con la violenza. Certo ognuno nel suo piccolo può fare la differenza ma è una lotta molto difficile. Buona serata.

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