Per essere una brava persona c’è bisogno di una condizione preliminare quasi imprescindibile. Non avere alcun interesse nel potere. Già, perché, a detta dell’atmosfera che circonda le generazioni under quaranta, ambire ad una qualche forma di potere, di controllo, di manipolazione è compromettente. Negativo, mefistofelico, sotto sotto inguaribilmente truffaldino. Stimolare le ambizioni? Non sia mai! Nutrire la volontà di imprimere un cambiamento attivo nella vita pubblica come privata? Eresia! Coltivare il senso civico, la responsabilità, il mutuo rispetto della propria innegabile idiosincrasia? Bisogna volare bassi, ché l’umiltà è l’unica moneta che vale qualcosa. Certo, fin quando non la si fa combaciare con il servilismo o, peggio, con l’opportunismo più smagato.
Quando ascolto in alcune occasioni, come dibattiti pubblici, convegni e seminari, certe opinioni in merito al ruolo attivo dell’essere umano nella società devo confessare che di rado mi trovo d’accordo con i relatori e ancora più raramente con il pubblico. Con i relatori fatico a inalberarmi, fanno quello che possono, il loro è un arduo compito: cercare di rendere interessanti delle materie alle volte difficili da masticare. Non che li svincoli da tale responsabilità, è pur sempre parte integrante del loro lavoro, ma un loro fallimento parziale dettato dal manierismo, dalla vacuità di certe frasi fatte, dall’impiego di luoghi comuni o grandi aforismi poco approfonditi, mi genera prurito, nulla di più. Con il pubblico il discorso è diverso. Con le orecchie che ascoltano, che tentano di apprendere, che, in sostanza, si trovano in quel luogo spero volontariamente, non riesco ad essere così permissivo. Spesso, non sempre considerando che non voglio fare di tutta l’erba un fascio, l’uditorio mostra nelle proprie osservazioni una convinzione che trovo nobile ma al contempo tragicamente fallace. Quella di sentirsi dalla parte giusta della storia. Nel clima, nell’inflessione, nel piglio di queste risposte, emerge una sicumera che sbalordisce, un’arroganza involontaria che annichilisce la critica all’oggettività. Il discorso si sta sviluppando in maniera decisamente sentenziosa e odio l’idea di salire in cattedra per parlare di qualcosa. Anche perché, diciamocelo, non è che io abbia tutta questa autorevolezza per poterlo fare. Sono chiacchiere al vento, dirette al deserto, da brava vox clamantis ancora in fieri.
Perché è insorta questa disamina spicciola e raffazzonata della mia insofferenza nei riguardi del modo di dibattere negli ambienti … accademici, formali, intellettuali? (Usate l’etichetta che preferite, a me sono venute in mente queste). Perché ho notato un trait d’union celato nella scenografia di questi interventi.
Parliamo della società, del modo per sviluppare la propria agency all’interno della stessa, delle modalità per avere un impatto sulla vita collettiva. Si narra, si articola, si sciorina, si distruggono le vecchie posizioni per crearne di nuove. Ci si danno grandi pacche sulle spalle, si ammira ed elogia giustamente una nuova intuizione interpretativa sagace e brillante, si ambisce a essere i protagonisti della scoperta della nuova chiave di volta ermeneutica.
Poi si esce dallo spazio ristretto dell’aula. Ci si confonde nuovamente nel mondo e, magari, alla domanda repentina di un controllore del bus nemmeno si sa rispondere con prontezza di riflessi.
“Ce l’ha il biglietto? A bordo c’è una sovrattassa se lo vuole comprare.”
I neuroni tentano di riconfigurarsi, la battaglia è aspra. Poi esce un mugugno a metà tra una critica della ragion pura e un astratto calcolo matematico, quasi a voler generare delle monete con la sola forza del pensiero.
Al prossimo salto sinaptico i collegamenti faranno ancor più fatica tanto che, una volta giunti a casa, il frutto di tanto interrogarsi sarà allegramente sommerso dalle incombenze quotidiane. E i fili di tante riflessioni, di così alte e pure elucubrazioni, si perdono nel marasma urbano, dimostrando una invidiabile proprietà magnetica della realtà contingente.
La teoria, inseguita con pervicacia, si confonde nella mancanza di un’attuazione pratica. La conoscenza senza una componente attiva diviene erudizione. Utile certamente a scrivere libri interessanti e a progettare a tavolino delle rivoluzioni epistemologiche, ma non altrettanto per quanto riguarda le vicende materiali del mondo di sotto.
Si usa un termine che trovo azzeccatissimo per descrive il cosiddetto bagaglio culturale, ossia la preparazione. Il termine indica una processualità agli albori, un percorso per il quale si stanno gettando delle nuove basi. Non c’è traccia di compiutezza in ciò ed è così che dovrebbe essere. Le informazioni sono come dei mattoncini che pian piano mettiamo da parte per costruire qualcosa. La nostra personalità, il nostro modo di essere e le nostre peculiarità più squisitamente personali daranno il tocco finale, saranno le singole azioni che cementeranno questi mattoni l’un l’altro. Non parlo quindi di punti d’arrivo. Non ci sono finali, ma bensì inizi dalle potenzialità sconfinate.
Non è triste limitare la conoscenza alla sola teoria? Il rischio è quello di farla stagnare o di renderla tanto autoreferenziale da risultare oscura, esageratamente ermetica o, peggio, sterile.
Mettere in discussione, ecco uno dei miei mantra. Che ha un po’ il sapore di quegli slogan che tanto disprezzo ma tant’è, sono un essere pieno di difetti fastidiosi.
Il dibattito non deve generare circoli viziosi o labirinti. La parola non deve rimanere fine a sé stessa pur nella sua bellezza semiotica. Non parlo della parola in quanto strumento d’arte, l’arte ha delle sue regole che qui non voglio trattare. Il confronto deve generare nuovi scontri, l’urto congiunto di più consapevolezze. Deve dare vita a progetti, situazioni, iniziative. Deve essere propositivo e non limitarsi alla sua riproduzione. L’obbiettivo non è “tornare a dibattere” ma “tornare perché si ha la necessità di affrontare altri nodi critici”.
Non siamo dalla parte giusta della storia, tanto per dirne una, siamo dalla parte giusta della nostra storia. Anzi, dalla parte di coloro che vogliono essere i buoni o i vincitori di una storia tutta particolare, in sé transeunte fin quando non canonizzata, non istituzionalizzata. Badate bene, non è un modo sibillino per giustificare i revisionismi, è solo un’impostazione, tra le tante che esistono già, che predica la necessità di una critica costante del reale.
E dopo aver dibattuto, dopo aver creato i presupposti, questi benedetti mattoncini?
Si passa all’azione. Si cerca di concretizzarli.
L’errore è sempre dietro l’angolo, quindi ci vuol ponderazione. Lo sbaglio non è da demonizzare, è solo una stortura da correggere (nonostante io sia convinto del fatto che le asperità della vita non siano mai cesellabili con perfezione). L’errore è critico? Si torna a dibattere, si cercano soluzioni. La strada dà sul vuoto? Si torna indietro, si ammette il fallimento e si riparte cambiando direzione. Oppure, per i più impavidi, si costruisce un bel ponte sospeso.
Non voglio arrivare a pontificare sulla natura della conoscenza, non avrei alcun interesse nel dire che il suo fine ultimo consiste nel rendere le persone operose. Ciononostante, l’operosità è sicuramente una delle attitudini che potrebbe incoraggiare e se parliamo di avere un effetto su questo ammasso di polvere spaziale, se vogliamo davvero lasciare un’impronta duratura, credo sia un ottimo sentiero da battere.
Obietterete che anche queste non sono altro che vuote parole, chiacchiere da salotto. Tra l’altro strutturate male, in un discorso che non si capisce dov’è che voglia andare a parare!
È solo un inizio, una prima bozza, l’incipit di un progetto più grande che coinvolgerà anche la sfera dell’azione e non solo quella della riflessione. Seppur bisogna ricordare che scrivere è pur sempre un atto e rendere pubblico un pensiero un’azione in qualche modo politica, tuttalpiù una semplice presa di posizione. Che in questi tempi di banderuole non mi par poca cosa, ma lascerò giudicare a voi.
Vorrei tratteggiare il finale rispondendo al dubbio posto all’inizio. Ho ignorato il potere fino a questo momento per dare corpo all’arringa finale, per dimostrare com’è che sono arrivato a formulare certe ipotesi.
Ho la sensazione che in questo periodo storico le “nuove” generazioni provino una paura immensa nei confronti del potere, vieppiù se istituzionale. Una sorta di diffidenza atavica e biologica che in realtà non è tale. Discutere del perché sia insorto questo curioso malinteso sarebbe cosa lunghissima (e non so nemmeno se ne sarei totalmente in grado), ma rimane come dato di fatto, anzi, come pura osservazione aneddotica, questo timore, questo sentimento di inadeguatezza che si prova dinnanzi al potere decisionale. Sono le immense responsabilità a spaventare? Il terrore di non essere adatti, capaci, competenti? E perché si parla così tanto della possibilità che ha il potere di corrompere e non di quella di fare del bene? Perché l’etica si ritrae sdegnosa di fronte alle figure a cui spetta l’ultima parola, ai fantasmatici esseri umani nella stanza dei bottoni? Le nuove generazioni stanno accumulando un patrimonio conoscitivo immenso, lo stanno ereditando da una tradizione millenaria ricca di bellezze e contraddizioni, perché non sembrano avere il coraggio di metterlo in pratica? Perché sembrano disinteressati? Sembriamo, pardon, che ne faccio parte anche io.
Prima o poi, nolente o volente, dovremo prendere in mano le redini del futuro, tentare di addomesticare il cavallo imbizzarrito. Più tardi inizieremo, più sarà difficile operare con precisione e lungimiranza. Più accetteremo di non essere considerati, di non avere interlocutori interessati e affidabili, più entreremo nel cono d’ombra dell’irrilevanza. Altri prenderanno le scelte e noi guarderemo.
Ci sta bene? Ai posteri l’ardua sentenza, io mi limito a porre la questione all’attenzione di chi è interessato.
Ebbene sì, siamo adulti anche noi ormai, che ci piaccia o meno.
Non possiamo più delegare e delegare e delegare chiudendoci nel mondo ideale del “poi si vedrà”.
Photo by Todd Kent