Un percorso di formazione è un lungo tragitto, lungo a tal punto che dovrebbe essere infinito, o perlomeno il traguardo non dovrebbe essere visibili fino ai, che so, ottant’anni d’età? Non voglio chiamare questo viaggio nei meandri della conoscenza, ma si capisce che sono ironico quando uso tutte queste perifrasi?, il Progetto per il Perfezionamento dell’Uomo, perdonate Evangelion, ma Umanità avrebbe reso il titolo troppo altisonante, ma, anche secondo le delibere del Parlamento Europeo, la formazione continua dovrebbe essere al contempo un diritto e un dovere del cittadino.
Per formazione continua non intendiamo qui un percorso solo istituzionale, quindi formale, ma tutto ciò che riguarda il miglioramento delle condizioni del singolo, siano esse fisiche, mentali, occupazionali. Questi obiettivi si possono raggiungere in vari modi, anche seguendo corsi informali, o addirittura nella vita di tutti i giorni, in quella quotidianità a tratti bistrattata e a tratti incensata come il nuovo-vecchio vero stile di vita. In sostanza questo processo continuo, graduale e sistematico consisterebbe nel prendersi cura della tenuta del nostro involucro di carne così come della performance dei nostri neuroni sovreccitati. Sintetizzando tutto in una singola parola: benessere.
Che non significa solo avere il cibo sul tavolo, un tetto sulla testa e uno straccio di assicurazione sanitaria (ammicco a voi amici statunitensi), bensì la possibilità per realizzarsi individualmente all’interno dei confini di una comunità. Senza esacerbare il proprio Ego nello scontro con il Noi collettivo, ma senza neanche confondersi negli anfratti di un plurale spersonalizzante. Significa anche badare all’ambiente che ci circonda, rispettarlo e crescere insieme a esso. Significa anche curarsi degli esseri umani che lo abitano, così, giusto per non farsi mancare nulla. Significa, in ultima analisi, avere le competenze per affrontare tutte le situazioni che la vita ci pone innanzi senza dover fare affidamento a chiromanti, veggenti e agenti della polizia municipale.
Occhio, non intendo che tutti dovremmo saper fare tutto, ciò è irragionevole e totalmente logorante sul lungo periodo. Ma capirete bene che, in un’ottica simile, se tutti si impegnassero per svolgere il loro piccolo zero-virgola-uno-percento, sarebbe qualcosa, un punto di partenza incoraggiante.
Spero che queste mie parole non vengano recepite come cazzatine new age da giovane verde e neanche come il delirio utopico e piuttosto ingenuamente ottimistico di un wanna-be-guru del lifestyle.
(Alla prossima espressione inglese sarete ben in diritto di abbandonare questo articoletto e di sentire il
prurito montarvi nelle mani come un lapillo sparato da un vulcano in eruzione).
A voler essere sinceri fino in fondo, i percorsi tradizionali sono piuttosto deludenti. Non ve lo dice uno che ha studiato all’Università della Strada e della Vita, ma uno che purtroppo li conosce dall’interno. L’aneddoto non fa la scienza, ma è con tanti aneddoti che si costruiscono le osservazioni sulle quali basare la propria indagine meticolosa e rigorosa, supercazzora per dire che potete farci quello che vi pare con questa mia dichiarazione autobiografica.
Studiare, maledizione esclamerei, non significa buttare la propria vita sui libri, astrarsi in un mondo di unicorni e supereroi nichilisti o erigere pilastri dai quali sputare su quelli, sani, che hanno pensato bene di non rinchiudersi in un ambiente polveroso a discettare sul perché gli alchimisti fossero pazzi ma fighi e cosa mai ci sia di così interessante nell’ennesima variante testuale di un manoscritto del milleduecentoventiboh.
Studiare significa crescere. Affermare il proprio diritto d’essere qui ed ora. Lo studio, nella sua accezione più ampia, nobilita l’azione e il pensiero, ci permette di realizzare piani, progetti e azioni che senza non avremmo nemmeno immaginato. Se fossimo piante, sarebbe un misto di acqua e concime, se fossimo stelle, sarebbero le reazioni termonucleari che le alimentano.
Non vorrei passare per un pervicace ed ossessivo individualista ma, quel ma che racchiude tutto, la vostra formazione, la nostra, mica sono un extraterrestre, rappresenta uno degli aspetti più intimi e profondi dell’esistenza. I ricordi, le lezioni di vita impartite e ricevute, il cazzotto e l’occhio nero conseguente, il quattro all’interrogazione e il salto triplo più lungo della vostra carriera atletica, tutto, tutto fa parte di questo inesauribile viaggio. Ovvio, basta poi ricavarne qualcosa, è così che la conoscenza diventa competenza, del resto. Prendete ciò che può esservi utile da ogni tipo di percorso. Dalla scuola dell’obbligo all’università, dal circolo sportivo alla compagnia teatrale di quartiere, dagli incontri con il comitato bocciofili della provincia fino ad arrivare al cane del palazzo, ai nonni dell’amichetto, al commesso del vostro rivenditore di fiducia.
Non fermatevi ai pezzi di carta, non considerateli mete né ambizioni. Sono, tuttalpiù, dei certificati che dovrebbero accreditare alcune delle vostre abilità, ma visto come vengono rilasciati, diciamo che lavorare sul contenuto è sicuramente più soddisfacente e utile rispetto al concentrarsi sulla mera forma.
Sappiate che chiunque abbia un cervello sceglierà sempre una persona brillante sprovvista di carta igienica firmata, rispetto ad un dottissimo pluri-graduato che non sa allacciarsi nemmeno le scarpe senza scomodare Kant, Protagora e Spinoza.
Con questo non voglio delegittimare o screditare tutti coloro che lavorano o si impegnano per ottenere e fornire questi servizi. L’importante è ricordare che, per l’appunto, sono servizi intesi per aiutare a far germogliare il ricevente.
Una laurea quinquennale è meno valida di cinque anni di volontariato tra i meno fortunati?
Misuriamo da questo la vostra malizia.
La risposa è, semplicemente, dipende da come le esperienze si sono svolte.
Certamente una laurea presa con i punti della Coop è meno istruttiva del volontariato attivo, così come la bella presenza in mezzo ai disagiati solo per far sfoggio della propria gentilezza non è nemmeno lontanamente comparabile ad un serio ottemperamento delle virtù accademiche.
Troppo?
Photo by Dragos Gontariu