Prendere in mano i versi di una poesia del pieno Novecento ha come effetto quello di proiettarci di fronte alla sicurezza incrollabile di una persona che, nonostante tutto, dà ancora la parte più limpida di sé quando tenta di esprimersi liricamente.
Subito sorge una domanda a fior di labbra, un quesito, un punto interrogativo innocuo quanto sottilmente brutale. Dov’è finita la crisi delle certezze tanto decantata dai manuali di storia della cultura? La caduta dell’Io, il relativismo, le scoperte freudiane, il trionfo della fisica, l’affinamento degli strumenti tecnici, le imminenti rivoluzioni geopolitiche, tutto in un grande calderone, mescolato con la perizia di un macellaio, tutto insieme, ammassato, a contornare un quadro della situazione sostanzialmente allarmante. Ciò si riflette sulla produzione artistica del tempo, soprattutto nelle menti più aggiornate e all’avanguardia, di quelle che mai si sarebbero fatte scappare dalle mani una succosa notizia fresca di tragedia o rivoluzione. Nei versi di questi esseri alle prese con la modernità resiste l’intenzione di mostrare una via, di raccontare una storia esemplare, di ergersi, non sempre con alterigia, come guide per dipanare il filo astruso del futuro. Non possiedono la sicumera e la certezza infallibile di un greco dell’età classica, sono lontani dalle profezie e dalle sentenze sulla vita di quel periodo di aurea scoperta del potere della letteratura, ma al contempo non si sentono secondi a nessuno, sono al centro degli eventi ed essi stessi chiedono di essere documentati e rielaborati. Benché avvilito, afflitto, scontornato dalle forze di una vita che irrompe nelle case del popolo con violenza, l’Io del poeta custodisce un barlume di serena visione delle cose. È il lascito splendente della sua tradizione e dell’idea che si è costruito attorno a quell’alloro adatto a cingere le teste di chi ragiona non per profitto, bensì per raggiungere chiarezza e conoscenza. Anche perché, di poesia, non si campava allora come adesso.
Troppo è cambiato per puntare il dito verso un unico colpevole. Bisogna prendere atto del mutamento e far fronte alle conseguenze. Il movimento è diventato la cifra epocale di un’umanità in cammino, mai sazia, mai ferma, mai soddisfatta. Ciò che prima era appannaggio delle ristrette classi aristocratiche è lentamente diventato l’aspirazione di tutti, il simulacro del contadino come quello del primario di cardiologia. La nuova felicità, nell’epoca del postmodernismo e della liquidità, ha democraticamente azzerato le differenze tra i desideri, tagliando la testa ai vecchi vincoli con la praticità di una ghigliottina ottimamente collaudata.
E il nostro amico poeta che fine ha fatto in tutto questo?
È stato sommerso dalla ridda delle informazioni e delle sensazioni collettive. In alcuni casi si è ripiegato su sé stesso, scovando luci religiose dove non c’erano che grandi toni civili, oppure cucendo insieme immagini bucoliche di un mondo che, irreale o meno, è tramontato; in altri ha modulato la sua voce fino ad affievolirla, abbandonando la grancassa dei migliori tempi andati. Verrebbe da pensare che non era pronto all’ingresso in scena della prepotente massa dei consumi.
Ha il suo cappellaccio mal calcato in testa, una piuma d’oca tra le mani e studia con acribia le voci dei vocabolari online che tanta fatica gli stanno risparmiando. Com’è facile adesso trovar le rime! Pensa l’allegro disgraziato.
Non è più sicuro di niente. Non si sente in grado di guidare nessuno, le sue parole sono solo altre parole. Mediaticamente è un dinosauro, di quelli ancora simil-rettili e senza penne, è il cavallo di Troia che non è più un cavallo da tempo immemore (perché cavallo non è mai stato). Perché il suo messaggio dovrebbe sovrastare e superare quello di qualsiasi altro essere vivente? Da cosa dovrebbe trarre le basi per poter affermare di aver visto qualcosa che tutti gli altri faticano ad inquadrare? È uno scemo come tutti gli altri, un idiota che punta il dito alla luna immaginando le galassie dietro. È uno scemo, perché quando gli chiedono perché osservi un punto tanto distante fa ammenda e si scusa, torna a guardare i sassolini dell’acciottolato contando le pecore per dormire.
Sa cosa dire, ma non sa perché dovrebbe farlo, sembrano già tutti ben convinti del fatto proprio!
Devono aver capito cose che lui non conosce e non osa, alla fine della fiera si scopre addirittura il più ignorante in materia di vita, il meno saggio.
Eppure, già, eppure questo fuoco che gli arde in petto vorrebbe incendiare il mondo e renderlo una lanterna in tanta oscurità. Che gli si dica pure che tutto è già stato detto, che la storia è ciclica e che non siamo che le rielaborazioni di altre rielaborazioni. Al fuoco questo non interessa.
Ma la fiamma è una cosa e la persona che la alimenta un altro.
Se non si può più esser vati tanto vale fare il giro e diventare ciarlatani! Dire quello che si vuole, come lo si vuole. Cum grano salis, s’intende, senza berciare insulti o frasi sconclusionate. Libero, il poeta vuol essere libero di articolare il suo pensiero, e se altri non lo sentiranno poco male, all’incendio non si comanda.
È in definitiva questo idiota che, a differenza di molti, perlomeno si diverte (irrorando le orme di lacrime e risate).
Photo by Mark de Jong